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la musica
e la storia
N
el 1836, Giuseppe Mazzini pub-
blicava a Parigi il saggio
La filoso-
fia della musica
, nel quale inneggiava
ad una nuova scuola melodrammatica
italiana, con riflessi politici e morali,
capace di far progredire la nazione, e
che avrebbe trascinato con sé l’intera
Europa musicale; una scuola nata fon-
damentalmente da Rossini, di lì por-
tata a maturazione quasi completa da
Donizetti (Bellini stava un po’ al mar-
gine, ricordato solo in nota al saggio,
perché - sempre secondo Mazzini - le
sue “lunghe melodie” poco si presta-
vano ad interpretare le nuove istanze
ideali e civili), in attesa di un
ignotum
numen
che un occhio attento e un
orecchio sensibile potevano già indi-
viduare all’orizzonte, predisposto, per
così dire, dai due sommi predecessori.
A tanto arrivava Mazzini ancora sotto
l’effetto della rappresentazione, l’anno
precedente e nella stessa Parigi, del
Marin Faliero
proprio di Donizetti.
R
isciacquare
l
’I
talia
a
P
arigi
Che fosse cosciente o meno della mis-
sione che Mazzini voleva affidargli, per
parte sua Il nostro compositore aveva
cominciatomolto prima a vedere in Pa-
rigi una meta ideale per la propria pro-
duzione, perché lì le sue opere avrebbe-
ro avuto risonanza ancor maggiore che
in Italia e perché Parigi era comunque
agli occhi suoi e dei suoi conterranei
e contemporanei il più vivace e il più
importante centro culturale europeo.
Il che significava guardare alla capitale
francese anche come termometro dei
successi e ancor più come luogo parti-
colarmente prestigioso della produzio-
ne drammatica e persino crocevia delle
più nuove e moderne culture letterarie.
Senza contare che il tempismo con cui
in Francia si traducevano testi inglesi o
tedeschi altrimenti inaccessibili per la
quasi totalità degli intellettuali italiani
permetteva proprio ai nostri composi-
tori di disporre di fonti drammatiche
quanto mai varie, che certo - nono-
stante Alfieri e simili - la storia del tea-
tro italiano non poteva vantare.
Da queste premesse bisogna partire
anche per la
Lucrezia Borgia
. Perché
quello che colpisce lì prima di tutto è
lo straordinario tempismo con cui Do-
nizetti e in parte il suo librettista Fe-
lice Romani percepiscono non solo la
novità e l’interesse per quella tragedia
“italiana”
sui generis
, ma soprattutto
la sua produttività melodrammatica.
A dir vero, se scorriamo l’elenco delle
opere donizettiane abbiamo l’impres-
sione di un ampio orizzonte di fonti,
nel complesso però riconducibili pro-
prio alla produzione più o meno con-
temporanea d’oltralpe. Ma la
Lucrèce
Borgia
di Victor Hugo non si poteva
certo confondere con
pièces
o libretti o
farse talora dozzinali, seriali nelle loro
componenti tematiche e nei rispettivi
personaggi, ai quali si erano rivolti col-
laboratori pur all’altezza dei compiti di
un librettista, come l’assiduo Gilardo-
ni, o l’ottimo Jacopo Ferretti e lo stesso
Romani. Per altro, per quella che può
essere chiamata la trilogia italiana, cioè
le tre opere ambientate nell’Italia delle
corti tra Tre e Cinquecento e composte
quasi contemporaneamente, nel solo
1833, da Donizetti,
Parisina, Torquato
Tasso
e
Lucrezia Borgia
, il composi-
tore si era personalmente immerso in
letture straordinarie e con notevole
passione; come lui stesso dichiara a
più riprese, per esempio scrivendo a
Ferretti a proposito del Tasso: “Indovi-
di
D
aniela
G
oldin
F
olena