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CLASSIC
POST
IL DIRETTORE
RISPONDE
parere, con l’umiltà invece sacrale
di chi si pone a completo servizio
d’un compositore venerato non
solo a parole ma coi fatti. Piani,
pianissimi, più che pianissimi; tril-
li, addirittura, e addirittura nel co-
siddetto “fuoco” del Trovatore (per
Verdi inesistente e inventato inve-
ce da quel gran trombone del Barilli
vero autore dell’apocrifo Trovatore
quasi sempre eseguito); ma anche,
in punti ben precisi - pochi, mol-
to pochi e proprio perciò efficaci
- quella prescrizione un poco crip-
tica “con enfasi” che troviamo fin
dalle prime pagine vergate da Ver-
di e ricorrerà fino all’ultima. Enfasi.
Una cosa regolarmente assimilata
alla retorica appunto del “fuoco”,
del “cuore in mano”, del “nazional-
popolare” e via sciocchezzando. E
invece per Verdi era l’esatto equi-
valente dell’eloquio alto, da grande
oratoria civile, che lui tanto ammi-
rava (anzi “venerava”, com’ebbe
a scrivere; sentimento che basta
leggere l’epistolario per render-
si conto a quante poche persone
abbia riservato tale sentimento, e
quindi quanto andrebbe tenuto in
considerazione a fini espressivi)
nella prosa e nei versi di Manzoni.
Per me, quando ascoltavo Bergonzi
in teatro e lo riascolto adesso nel-
le per fortuna numerose testimo-
nianze discografiche che proprio
a questo dovrebbero servire, era
appunto tale eloquio alto che av-
vertivo. Tutt’altra cosa da quell’al-
tra scemenza tanto spesso ripetu-
ta della “nobiltà”, tormentone di
troppi loggioni in fregola. È l’ac-
cento ampio, austero, sem-
pre vibrante di commozione
rattenuta che tinge tanto
l’impeto passionale quanto
il ripiegamento melanconi-
co, e che trova un’infinità di
gradazioni diverse entro un
complessivo fraseggio nel
quale chiaroscuri, sfumatu-
re, gradazioni di spessore del
suono sono tutti di ricchezza
e varietà eccezionali, diret-
to portato del fenomenale
controllo della respirazione
fornito per l’appunto dalla
completezza d’una tecnica
dai pochi o forse addirittu-
ra punti paragoni nel dopo-
guerra.
Tecnica formidabile al servi-
zio d’una sensibilità artistica
di tanto più stupefacente in
quanto appannaggio d’un
uomo di scarsa o nulla cultu-
ra generale.
“Sa, non ho neppure la quinta ele-
mentare perché mi bocciarono, e
dopo mi misi a lavorare al casei-
ficio di mio padre”, mi disse tran-
quillamente durante un concorso
di canto al quale avevo parteci-
pato - sono noiosissimi - solo per
stare una settimana, io non l’avevo
mai conosciuto, a suo stretto con-
tatto; e fu difatti uno dei miei più
stimolanti corsi universitari da me
frequentati. Quella sensibilità che,
in ispecie nel caso di artisti vocali,
viaggia per strade tutte sue, negan-
dosi spesso ai grandi intellettuali e
toccando invece persone come la
Callas o come Bergonzi: è qualco-
sa che il genetista spiega parlando
del codice genetico (e certamente
la sensibilità musicale è qualcosa
connesso a un complesso di geni
che, in taluni fortunati, si dispon-
gono tutti nel modo giusto); e che il
credente attribuisce invece al dito
di Dio. Io credente non sono, ma se
lo fossi mi figurerei il “sommo Car-
lo” presentarsi a quei tali Cancelli e
vederseli aprire da don Peppino in
persona. Simbiosi ideale di artista
creatore e artista interprete di tali
sue creazioni. Il resto (la “esce”,
la sua figura non proprio da ideale
romantico, lo stare in scena un po’
diverso da quanto oggi costuma ed
è giusto ma allora contava meno;
la mancanza dello squillo tenorile
lucente e insolente): lasciamolo ai
poveretti che credono le opere di
Verdi scritte da Bruno Barilli. Io - e
Bergonzi: che presunzione, la mia -
preferiremo sempre Verdi.
Elvio Giudici
Ricordando
Bergonzi
Questo mese dedico lo spazio del-
le lettere a una missiva speciale in
ricordo di Carlo Bergonzi, il grande
tenore scomparso novantenne lo
scorso luglio.
Caro direttore,
in genere mi danno fastidio, le ce-
lebrazioni post-mortem, difficile
sfuggire a una sensazione di fret-
toloso e insincero dovere. Ma per
me, Carlo Bergonzi ha rappresenta-
to un ideale artistico fin da quando
l’ascoltavo da ragazzino, una vita
fa. Già allora circolavano ironie sul-
la sua “esce” emiliana, che a me
non dava minimamente fastidio
perché nella mia immaginazione
ho sempre scorto nitidamente Ver-
di nella sua villa di Sant’Agata (che
dista un chilometro da Vidalenzo
dove nacque giusto novant’an-
ni fa Bergonzi), declamare a voce
alta i versi d’un libretto per trarne
la successiva ispirazione musica-
le, e lo sentivo quindi pronunciare
pure lui “Sce quel guerrier io fosci,
sce il mio sciogno s’avverasce”. E
lo trovavo bellissimo. La dizione è
importante (e per inciso, “esce” a
parte, quella di Bergonzi era della
vecchia scuola: nitidissima), ma
non è assolutamente assimilabile
ipso facto all’accento, che è tutta
un’altra cosa. È il colore che assu-
me una frase nel pulsare della di-
namica, nell’evidenza conferita a
una parola della frase o addirittura
a un fonema della singola paro-
la, nel plasmarsi della linea voca-
le entro un “tono” che conferisce
all’atmosfera narrativa d’un intero
episodio la sua “tinta”: termini che
nell’epistolario di Verdi ricorrono in
guisa di tormentoni, e che trovano
puntuale traduzione nelle innume-
revoli prescrizioni espressive dis-
seminate nelle sue partiture.
Prescrizioni trascurate quasi tutte
dalla cosiddetta tradizione esecu-
tiva, e rispettate invece alla lettera
da Bergonzi, con scrupolo definibi-
le come maniacale oppure, a mio
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