• Mondo Classico

    Il sovrintendente della Fenice si scusa con l’orchestra

    VENEZIA - Un teatro rinato dalle sue ceneri supererà anche questa tempesta. Ma quella che si sta abbattendo sulla Fenice, dopo la nomina di Beatrice Venezi a direttrice musicale, rischia di essere la tempesta perfetta, al momento impronosticabile nei suoi effetti a breve termine. Che in queste ore il caos regni sovrano lo noterebbe anche il primo distratto avventore di Campo San Fantin: solo ieri mattina sulla pagina Facebook istituzionale del Teatro è apparso un post con una assai poco velata contestazione alla nomina di Venezi: “Le cose accadono per delle ragioni, ma a noi piace quella ragione? Molto di rado”, una frase di Stephen King riconducibile alla notizia fresca di giornata. E se c'erano dubbi sul collegamento, la rimozione quasi istantanea del post dalla pagina Facebook ha dissipato ogni residua perplessità. Nelle stesse ore è circolata una comunicazione interna del sovrintendente Nicola Colabianchi indirizzata ai lavoratori del teatro. Da questo lunghissimo documento interno, che in poco tempo ha fatto il giro d'Italia, si ricava lo stato di agitazione collettivo, con tanto di “mea culpa” del neo sovrintendente Colabianchi per “la mancata procedura di confronto preliminare che avevo promesso e che non ha avuto seguito”, dovuta, a suo dire, all'escalation mediatica che ha accompagnato le voci sulla possibile nomina della Venezi. “La mia scelta è stata pertanto quella di agire per riprendere il controllo della situazione e per proteggere il Teatro da un dibattito esterno che non aveva nulla a che fare con la nostra missione. Non si è trattato di fretta ma del timore di continue e ripetute polemiche che avrebbero potuto interferire nel processo di scelta: si è trattato di un'iniziativa che ho ritenuto necessaria per evitare un sicuro danno maggiore”. Ma Colabianchi mette le mani avanti. E ai lavoratori, in maniera alquanto inedita, paventa il timore di un calo di abbonati e “un calo di consensi sui canali social”, che ieri, per la cronaca, sono stati letteralmente subissati di invettive contro la nomina di Venezi. “Capisco questi timori – scrive Colabianchi – ma vi chiedo di guardare al quadro generale. Ogni scelta di forte discontinuità comporta una reazione iniziale. Il nostro obiettivo strategico, tuttavia, non è solo quello di conservare il pubblico esistente, ma di allargare la nostra base, di parlare a nuove generazioni. L'attenzione mediatica, anche quando controversa, se ben gestita si trasforma in curiosità”. Come a dire: bene che si parli di noi, non importa come. La Fenice. Uno dei teatri più importanti al mondo. Ma il meglio deve ancora arrivare. Come a voler rassicurare i lavoratori, Colabianchi sottolinea che Venezi “non inaugurerà la stagione 2026-27” e dirigerà da contratto “un grande evento, tre concerti e due opere a stagione, ciò significa che la maggior parte delle nostre attività vedrà sul podio direttore di fama internazionale e di diverso orientamento stilistico”. Non un gran modo di accogliere la nuova direttrice musicale. Sulla scelta della quale, e sulle motivazioni che le soggiacciono, Colabianchi aggiunge toppe che sembrano persino peggiori del buco: “In un'epoca di competizione globale – prosegue il sovrintendente – non possiamo permetterci di restare fermi. Avere a Venezia un direttore d'orchestra di talento, donna, giovane e con una forte visibilità mediatica internazionale, è un investimento sul futuro della Fenice”. Chissà cosa ne penserà Venezi, che ha sempre voluto evitare la sottolineatura di genere, preferendo farsi chiamare Maestro, anziché direttrice. Ma sulla sua nomina è intervenuto anche l'ex sovrintendente della Fenice Cristiano Chiarot, che ha retto il teatro dal 2010 al 2018. Sulle pagine del “Manifesto”, Chiarot ha scritto che “la nomina della Maestra Beatrice Venezi è una pagina opaca nella storia recente della cultura italiana, e un esempio didascalico del livello a cui può scendere la lottizzazione nel nostro Paese”. La diretta interessata si è limitata per ora a un post su Facebook, ringraziando “la Fondazione e le istituzioni rappresentate all'interno del Consiglio per la fiducia: sono profondamente onorata di ricevere questo prestigioso incarico, che mi impegnerò ad onorare a livello internazionale e nazionale”. Ma la tempesta sembra appena iniziata. Su "Classic Voice" di carta e nella copia digitale c'è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html

    Pulcini racconta Sostakovic

    Il cinquantesimo della morte di Dmitrij Sostakovic coincide con l’ottantesimo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Due anniversari che chiamano in causa direttamente il compositore simbolo del Novecento, di cui Franco Pulcini è il massimo studioso italiano, nonché biografo. Professore, partiamo proprio dal 1988, anno di uscita del suo fondamentale libro su Sostakovic. L’Urss è ancora in piedi, il compositore è morto da appena 13 anni e di lui si conosce ancora poco. Ci può raccontare la gestazione di quel lavoro? “Una domanda simile se la sono fatta anche i musicologi sovietici, alcuni dei quali mi hanno citato nei loro libri. Il mio cognome in cirillico mi fa un po’ ridere. Marina Sabinina, autrice di uno dei saggi più importanti sulle sinfonie di S. (il quale la conosceva, e a volte la citava), mi ha scritto un biglietto in cui si chiedeva come era possibile che un giovane italiano fosse stato in grado di comprendere così bene un autore di un ambiente tanto lontano e riuscire a descrivere l’arte di un compositore tutto da decifrare nelle sue simulazioni amletiche. La vedova del musicista, Irina Antonovna, era molto preoccupata che uscisse un libro su suo marito di un musicologo molto giovane e con tutta probabilità talmente inesperto da interpretarlo male, come allora facevano molti critici sulla carta stampata. Poi gliene tradussero al volo alcune parti e venne a Roma per la presentazione, elogiandolo. Mi chiamava familiarmente Franco. La facevo tanto ridere quando le raccontavo delle corbellerie che si leggevano nelle pubblicazioni inglesi, tipo che lui aveva progettato un’improbabile opera lirica intitolata Sunday (in russo per ‘domenica’ e ‘Resurrezione’ si usa la stessa parola, voskresen’e, solo che il romanzo di Tolstoj si scrive Voskresenie, con la ‘i’ al posto del ‘segno molle’)”. Come ha “capito” la sua musica? “Forse capisco S., almeno a modo mio, perché ho avvicinato il suo mondo. Da ragazzino, a Torino, mio padre si serviva di un anziano giardiniere altoatesino di lingua tedesca che aveva fatto la campagna di Russia nella Wehrmacht e, fatto prigioniero dall’Armata Rossa, era stato condannato per crimini di guerra a venticinque anni di lavori forzati in un Gulag, ma poi liberato dopo sette. Mi facevo raccontare di quell’esperienza. Diceva, curiosamente: la Siberia, bellissima, aria pura impagabile, natura meravigliosa; il freddo, ci si copriva; il lavoro in miniera, un po’ scomodo, ma ce la cavavamo; c’era anche da divertirsi, con accanto un campo femminile e internate russe piuttosto intraprendenti; guardiani e secondini, normali, giusti, abbastanza brava gente, anche loro tutti ex condannati; lo hanno anche pagato per il lavoro svolto. Un Gulag semi-idilliaco! Unico problema, su cui esercitare la massima attenzione, persino in dialetto sud-tirolese: ‘ mai protestare o parlare di politica’, ‘mai lasciarsi sfuggire mezza parola che potesse essere interpretata contro di te’, ‘diffidare anche dei migliori amici’! Cominciai a capire quel mondo senza libertà. Lo ritrovai nella Tredicesima sinfonia, quando si canta del terrore di dire qualcosa contro il regime persino nel sonno, perché anche tua moglie potrebbe un giorno denunciarti”. Ha frequentato quelli che un tempo chiamavano i “Paesi dell’est”? “Nei primi anni ‘70, per studiare Janácek, vissi oltre un anno nella Cecoslovacchia occupata dai russi pochi anni prima. Ci tornai di continuo. E l’oppressione del socialismo reale sugli intellettuali e gli artisti mi era divenuta abbastanza chiara, anche se, con qualche cautela, si riusciva a sopravvivere. Ricordo che, mentre ero lì, il mio insegnante Massimo Mila mi scriveva raccomandandosi di non combinare pasticci e fare molta attenzione: lui ne aveva saputo qualcosa con la prigione durante il fascismo. Però si compiaceva con Luigi Nono che vi fossero audaci universitari che, per ragioni musicali, varcavano la cortina di ferro, indifferenti ai rischi della politica. Da quella parte dell’Europa, se uno sconosciuto ti avvicinava con una scusa chiedendoti cosa pensavi dei fascisti in Italia, era meglio dire che eri contrario, specie se mettevano bombe: se ne andavano via soddisfatti di non dover redigere circostanziate denunce, ma un semplice rapporto. Avevo iniziato già in Cecoslovacchia a raccogliere partiture e materiali musicologici anche su S., che spesso svendevano perché nessuno li comprava a Praga o a Brno, in odio degli occupanti. Sono stato alcune volte in Russia, ma anche nei Paesi Baltici, prima di scrivere quella biografia critica, e ricordo di essere stato nuovamente avvicinato, durante un’estate a Mosca nei primissimi anni Ottanta, questa volta da una disinvolta informatrice di bell’aspetto, dopo una telefonata di cortesia al corrispondente dell’’Unità’ Giulietto Chiesa. Non tutto il Kgb vien per nuocere… Quell’ambiente di sospetto, reticenza e necessaria prudenza, mi era divenuto familiare e di lì a comprendere che la musica di S. aveva dei doppi fondi tutti da interpretare, il passo fu breve. Devo dire che sono arrivato alla comprensione della sua musica nello stesso modo dei musicofili russi: ascoltando con attenzione i cenni criptici, le giravolte linguistiche, i messaggi in codice, di cui si sostanzia un dettato musicale tutto da tradurre, tanto nelle macroforme, quanto nei particolari. In fin dei conti, onnipresenti cifrature a parte, lui sviluppa una ‘polistilistica’ non dissimile da quella di Mozart, che maneggiava stili e maschere proprio come S., e sapeva mescolare shakespearianamente tragico, comico, malinconico e ridanciano entro forme di classica bellezza. Diciamo inoltre che, per capire S., bisogna aver letto con attenzione l’Amleto”. Com’era considerato Sostakovic a fine anni ‘80 in un’Italia che al voto esprimeva 10 milioni di voti al Pci? (...) L'articolo completo di Luca Baccolini continua nel numero 312 di "Classic Voice" versione digitale: https://www.classicvoice.com/riviste/classic-voice-digital/classic-voice-312-digitale.html versione di carta: https://www.classicvoice.com/riviste/classic-voice/classic-voice-312.html
  • Recensioni Opere Concerti e Balletti

    Il viaggio nei festival austro-tedeschi continua, II: Salisburgo

      A Salisburgo vince la proposta di Peter Sellars ed Esa-Pekka Salonen. One Morning Turns into an Eternity mette insieme Erwartung di Schoenberg e Der Abschied (ultima parte di Das Lied von de Erde) di Mahler, “cuciti” dai Cinque pezzi per orchestra op. 10 di Webern. La nuova drammaturgia si basa sulla successione senza soluzione di continuità di un’“Attesa” nevrotica e paraonica, quella descritta dal monodramma schoenberghiano (“La realtà”, dice Sellars), a cui segue l’“Addio”, il tentativo di approdare a una riconciliazione con se stessi (una “Visione” per Sellars). Nella prima parte - a differenza che in Schoenberg - la donna attende il corpo dell’uomo amato, un prigioniero politico che, nelle parole del regista, è stato fatto fuori da un regime dittatoriale e oppressivo in quanto “terrorista”. Ma questa ri-narrazione distopica non genera sul palcoscenico nessuna “attualizzazione”: il grande spazio della Felsenreithschule è vuoto (foto p. 73 a destra), c’è solo, sulla destra, una foresta (come previsto nell’originale di Marie Pappenheim), con alberi di plexiglass che si illuminano sulle suggestioni coloristiche del libretto. Le luci di James F. Ingalls proiettano sui muri della antica Cavallerizza spotlight in cui si staglia la silhouette della Frau espressionista. In realtà il cadavere dell’uomo è già lì, lo portano due sgherri chiuso in sacco. L’attesa del corpo diventa in scena urlo disperato sul suo ritrovamento. In questa essenzialità, che va alla radice del rapporto suono-corpo-spazio, c’è forse la grande lezione dell’ultimo Peter Brook. Che prende quota grazie alla vocalità fendente, di astrale nitidezza ma dagli involi allucinati, di Ausrine Stundyte in Schoenberg e a quella diafana ma ben proiettata di Fleur Baron in Mahler. Così come Esa-Pekka Salonen accende i Wiener in una scheletrica, acuminata, scrittura orchestrale per poi, attraverso la “dispersione” weberniana, traduce in flessibile, rubata, trasparenza quella di Mahler. Al contrario il Giulio Cesare messo in scena alla Haus für Mozart da Dmitri Tcherniakov percorre strade oggi più consuete: Handel rivive in un bunker squarciato dal rombo delle esplosioni sovrastanti (foto p. 73 a sinistra). Le note arrivano dopo una simulata procedura di evacuazione a sirene spiegate che procura un clima opprimente, claustrofobico, e che torna sul finale inibendolo. Non c’è leggerezza, ironia, gioco metaforico come suggerito da musica e libretto: alla sua prima opera barocca Tcherniakov cade su un’ambientazione che non “giustifica” gli affetti, ma li imbriglia dentro una gabbia concettuale estranea. Qui Cesare, Cleopatra, Tolomeo, Sesto, Cornelia & C sono disperati, violenti, disumani, provati dalla loro condizione di reclusi: ma la drammaturgia d’autore va in un’altra direzione. Per fortuna a riportarli in vita c’è la direzione mirabile per fantasia, accenti, varietà espressiva di Emmanuelle Haïm, alla testa del Concert d’Astrée: pur senza indulgere in accessi ritmici, restituisce tutta la vivacità e la prorompente e teatralissima bellezza della scrittura strumentale, con le voci prestanti di Christophe Dumaux, Cesare più pungente che nobile, di Yuriy Mynenko, insinuante e perverso Tolomeo, di Olga Kulchynska, Cleopatra di corda angelicata più che intrigante e sensuale, e quelle imperfette di Lucile Richardot, Cornelia talvolta grottesca, Federico Fioirio, ginnico, pigolante Sesto, e Andrey Zhilikhovsky, ruvido Achilla (fine seconda puntata; continua. Nella prima puntata abbiamo pubblicato la recensione dei "Maestri Cantori" da Bayreuth) Andrea Estero   Su "Classic Voice" di settembre la sezione Dal vivo sarà dedicata al resoconto critico dei più importanti festival estivi italiani ed europei Scoprilo su classicvoice.com/riviste.html

    Viaggio nei festival d’opera austrotedeschi, I: Bayreuth

        Visitare i tre principali festival austro-tedeschi dedicati all’opera (Bayreuth,

    Handel La Ressurezione

    ROMA - “In questa Resurrezione in forma scenica, racconto la storia di una famiglia contemporanea in
  • 316 Settembre 2025
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    Bergamo, 18 luglio

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    Atteso il 18 luglio a Bergamo a conclusione della rassegna “Estate Jazz al Lazzaretto” ,
    Il direttore tedesco dà forfait al progetto del Ring a Milano. L'Oro del Reno a Simone Young

    Thielemann perde l’Anello

    Christian Thielemann non dirigerà l'atteso “Ring” wagneriano a Milano. La notizia a bruciapelo
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    Genova, Opera Carlo Felice

      Il febbraio del Carlo Felice di Genova è dedicato a Mozart, e più precisamente al
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    Frédéric Lodéon “Le Flamboyant”

      In Francia Frédéric Lodéon è conosciuto come volto televisivo, il cui senso dell’umorismo ha aiutato la diffusione della musica classica a un ampio pubblico. Ma l’ex allievo di Rostropovic è prima di tutto un immenso violoncellista, dotato di un temperamento impetuoso. La sua eredità discografica per Erato ed Emi viene raccolta per la prima volta in un cofanetto che include numerosi inediti.         Su “Classic Voice” di carta o nella copia digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html      
  • Recensioni CD

    Fano, Sinigaglia Massarani Musica “degenerata” per violoncello e pianoforte

    Il titolo derivato da un concetto ancora più ampio: arte degenerata. Così esplicitato dal nazismo negli anni 30 del Novecento con l’obiettivo di eliminare la tendenza alla presunta decadenza dell’arte stessa perché - nella propaganda nazista - prodotta soprattutto da autori non di razza ariana, bensì ebraica. Anche questi tre italiani vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento, pienamente attivi in quei fatali anni 30, erano tutti di origini ebree. Per la verità solo l’ultima composizione, di Renzo Massarani (1898-1975), Sonatina in Do maggiore, è del 1937 e l’anno seguente in Italia furono emanate le leggi razziali fasciste che costrinsero poi il musicista ad abbandonare il Paese e trasferirsi in Brasile dove morì quarant’anni dopo. Per gli altri due compositori i brani incisi in questo cd appartengono ad anni meno problematici: 1898 la Sonata op. 7 di Guido Alberto Fano (1875 - 1961), 1923 la Sonata op. 41 di Leone Sinigaglia. Tanto che nelle loro opere risuonano piuttosto evidenti ascendenze di sapore romantico (Fano) o tardoromantico con accenni folklorici (Sinigaglia). E nello stesso Massarani il sapore è addirittura neoclassico nonostante a quell’epoca anche in Italia si facessero strada le avanguardie (queste sì davvero “degenerate”). In ogni caso, al di là della loro produzione artistica, fu proprio la loro appartenenza razziale a rendere quantomeno problematica la loro esistenza umana e artistica. Per questo i tre brani che qui possiamo ascoltare sono stati eseguiti nell’ambito del Festival Viktor Ulmann di Trieste che dal 2014 ha l’obiettivo di fare conoscere la musica di molti compositori che furono perseguitati da quei regimi totalitari per la loro origine ebraica e per le loro convinzioni artistiche. Tuttavia un merito, tutt’altro che secondario, i tre hanno avuto nel panorama musicale italiano: contribuire a creare una ritrovata identità fino allora dominata dal melodramma: recependo il risorgimento anche culturale che dopo le varie guerre di indipendenza nazionali aveva innestato fermenti decisamente innovativi nella cultura in generale. E i nostri tre, grazie soprattutto anche all’esempio di Sgambati e Martucci, contribuirono a quella metamorfosi che portò a una rinascita strumentale che poi avrebbe aperto la strada anche alle avanguardie. Merito di averci rivelato queste tre Sonate va agli ottimi Riccardo Pes, violoncello, e Pierluigi Piran, pianoforte. All’insegna di una distillata equalizzazione sonora, ma soprattutto di una sapiente lettura dialogica, hanno valorizzato nei rispettivi elementi ritmici-espressivi le idee compositive di tre musicisti che meritano il loro spazio. Antonio Brena
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