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Mondo Classico
Speciale Festival 2023
Registrati alla newsletter per sfogliare in anteprima lo Speciale Festival 2023 Speciale Festival 2023, per gli amanti della musica classica. Un'esperienza unica, combinando talento artistico di prim'ordine, spettacoli indimenticabili e un pubblico appassionato che condividerà la passione per la musica classica. Registrati QUII 70 anni di Riccardo Chailly
Non dirige spesso la musica di Vivaldi. Eppure la vita di Riccardo Chailly ha avuto le sue Quattro Stagioni. La ripercorriamo in occasione del suo settantesimo compleanno (il 20 febbraio), che il maestro festeggia con un nuovo cd dedicato ai grandi cori verdiani coi complessi scaligeri (Decca), pensando alla Lucia di Lammermoor che dirigerà al Piermarini dal 13 aprile. L’allestimento era nato per il 7 dicembre del 2020. “L’avevo studiata quasi con ferocia”, ricorda. Poi la pandemia se la portò via. Le quattro stagioni di Chailly (Berlino, Amsterdam, Lipsia e Milano-Lucerna), la sua vita professionale, in apparenza sono state un’eterna primavera. Nella “narrazione” di questo direttore non sembrano infatti esserci ombre, crisi, sofferenze. Forse anche per il suo pudore nel raccontarle. E allora il gioco è questo: rivelarne almeno una per ciascuna delle sue stagioni artistiche. Cominciamo da Berlino. Era i primissimi anni Ottanta e lei divenne direttore, giovanissimo, di quella che allora si chiamava Radio-Symphonie-Orchester… “A Berlino ereditavo un’orchestra di grande tradizione. Il mio predecessore era Lorin Maazel. Ripensandoci oggi, nella mia carriera ho dovuto sempre succedere a musicisti che mettono soggezione... (per chi non lo ricordasse Bernard Haitink ad Amsterdam, Kurt Masur e Hebert Blomstedt a Lipsia, Daniel Barenboim e Claudio Abbado rispettivamente a Milano e Lucerna, nda). Quale valore ha avuto l’esperienza berlinese? “È stata il punto di partenza di tutto. Avevo un sovrintendente illuminato come Peter Ruzicka, che mi ha aiutato a bruciare le tappe. Nell’incoscienza giovanile, ero cosciente di fare talvolta passi più lunghi della gamba. Eppure, poter affrontare subito il mondo mahleriano, Bruckner, i grandi classici tedeschi, è stato importantissimo. Grazie all’esperienza berlinese, infatti, quando sono arrivato ad Amsterdam avevo già familiarizzato con molte delle composizioni che al Concertgebouw costituivano il ‘canone’ che Mengelberg nei suoi 50 anni di attività aveva imposto: i grandi del Novecento, Mahler in primis, ma anche Rachmaninov, Stravinskij e le grandi pagine sinfoniche di Richard Strauss”. Ricorda difficoltà? “No. A Berlino ricordo una grande disponibilità da parte dell’orchestra, che non aveva nessun pregiudizio nei confronti di un giovane direttore italiano. Sono stato molto sereno per gli otto anni di permanenza”. Eppure in quegli anni Berlino era ancora una città per certi versi “triste”… “La divisione tra Est e Ovest era una ferita costante per la città. Quante volte la sera con mia moglie siamo saliti sulle piattaforme poste dinanzi al Muro che consentivano di avere una prospettiva sulla parte orientale della città. Ricordo le garitte delle guardie, e quelle luci tenebrose, tetre. Era impossibile vivere a Berlino non percependo la tensione di quella realtà”. Dal 1988 è a capo dell’orchestra che più ha segnato la sua prima maturità, il Concertgebouw. “Amsterdam ha rappresentato per me l’incontro e lo scontro con la tradizione. Ero ancora giovane, meno che a Berlino, ma comunque trentenne. Lì, a differenza che in Germania, ho vissuto una continua e costante tensione con alcuni musicisti e certa critica musicale. Mai con il pubblico, che mi ha sempre tributato calore, affetto e partecipazione. Erano peraltro gli anni ruggenti della mia vita, avevo voglia e desiderio di fare, la mia presenza era ‘enorme’ in termini di tempo, intorno alle 20 settimane all’anno come minimo. Questo significava anche tanto repertorio da mettere in cantiere…”. Luci e ombre insieme. Qual era il problema di fondo? “Essere il primo straniero dopo un secolo di direttori stabili tutti olandesi: Willem Kes, Willem Mengelberg, Eduard van Beinum e Bernard Haitink. La presenza di un giovane milanese portava sorpresa e agitazione, non c’è ombra di dubbio”. Anche per le scelte musicali? “No, semmai erano in discussione le scelte interpretative. Le decisioni sul repertorio erano orientate dall’intendente Hein van Royen, l’uomo che mi aveva portato a quel prestigioso incarico dopo avermi seguito e ascoltato dappertutto in Europa. Prima di darmi questa chance, ha voluto capire quali erano le mie caratteristiche, anche se era consapevole delle difficoltà che avrei avuto arrivando in orchestra. Dopo le iniziali frizioni, gli anni che sono seguiti sono stati sempre di maggiore intesa e complessivamente posso dire di aver avuto un lungo periodo di grandi collaborazioni: la parte centrale della mia vita di musicistia. Infatti alla fine ci siamo lasciati in maniera completamente compiuta e risolta. Ora torno ad Amsterdam una volta all’anno (il prossimo marzo, nda) perché mi hanno assegnato il titolo di direttore emerito, e ritrovarli come se non ci fossimo mai lasciati è un fatto bellissimo”. C’entrava anche una differenza culturale, nel senso di nazionale? “Essendo italiano e cattolico, la differenza con la cultura calvinista era molto evidente nella quotidianità e nel modo di pensare. Ma non è stata mai d’ostacolo a nulla sul fronte musicale”. Peraltro la stessa cultura si trova in un’altra capitale del Protestantesimo dove è stato dal 2005, Lipsia… (l'intervista di Andrea Estero a Riccardo Chailly continua sul numero 285 di "Classic Voice" in edicola fino al 15 marzo) -
Recensioni Opere Concerti e Balletti
L’altra faccia del Capodanno
Parto senza computer. Penso: tanto vado per riposare un paio di giorni e in programma ci sono solo due concerti di tradizione sui quali non occorrerà scrivere, il cosiddetto “Silvesterkonzert” dei Berliner Philharmoniker e quello di Capodanno della Staatskapelle Berlin. A Berlino ci sono però, diversamente dalla tradizione, 16 gradi e somigliamo tutti, berlinesi compresi, a Totò e Peppino imbacuccati a Milano; la città accoglie i visitatori divisa tra l’entusiasmo collettivo per una fine dell’anno colla stessa temperatura delle Baleari e della Sicilia e l’imbarazzo altrettanto collettivo del sapere che in realtà siamo in inverno e siamo quasi sul Baltico. Questa città stupisce sempre perché, come New York e Londra, non smette mai di reagire ai cambiamenti che spesso altrove vengono invece subiti, offrendo stavolta, musicalmente, una risposta al riscaldamento della crosta terrestre con due concerti rivelatisi tutt’altro che tradizionali, capaci di raggelare le migliaia di presenti, per lo più tedeschi (con quel poco che ormai significa questo aggettivo in un contesto interamente multietnico). Salutare doccia fredda n. 1: il “Silvesterkonzert” diretto da Kirill Petrenko con Jonas Kaufmann come artista ospite prevede quasi soltanto brani cupi o tragici, oppure violenti. Si apre infatti con la “Sinfonia” della Forza del destino seguita dalla scena “La vita è inferno all’infelice… Oh, tu che in seno agli angeli”, capolavori di orchestrazione resi come tali e con dettaglio pari solo alla tensione nervosa e muscolare che Petrenko ottiene dai suoi; la scena cantata da Kaufmann avvolge poi il pubblico fra le brume di una notte nebbiosa e malinconica - atmosfera creata dal clarinetto nella quale il celebre tenore si muove con agio e sicurezza, anche perché i colori del sole tende sempre più a mascherarli o ad aggirarli. Dopo “Giulietta! Son io!” di Zandonai, arriva violentissimo fino al masochismo il frammento della “Morte di Tebaldo” dal Romeo e Giulietta di Prokof’ev, che stordisce l’uditorio prima di due pagine di Giordano e Mascagni prosciugate da qualsiasi sentimentalismo. La presenza di tre composizioni filmiche di Nino Rota (due estratti dalla Strada e, come bis insieme al tenore, la canzone “Parla più piano” da The Godfather) aiuta a storicizzare e canonizzare il compositore di Fellini e Coppola ed è funzionale al dialogo Italia-Russia sul quale è impostata tutta la serata, conclusa col Capriccio italien di Ciajkovskij: esibizione di finezza timbrica e virtuosismo nella concertazione e negli assolo. L’Italia - siamo all’ultimo dell’anno - è una presenza comprensibile secondo lo stereotipo del Belpaese e l’imperativo invito a divertirsi (dappertutto in città c’è qualcuno che ti incita: “viele spass!”). Ma c’è anche la Russia, per ricordare, prima del brindisi che a pochi chilometri si muore per colpa di due oligarchi ai quali lo champagne non mancherà, come non mancheranno le lacrime alle madri, alle mogli e alle sorelle dei soldati, alla martoriata e vilipesa cittadinanza ucraina. Dopo un secondo agile bis (la Tarantella dalla suite Ovod di Sostakovic, ancora una volta musica da film), fuori dalla Philharmonie impazzano già in prima serata i fuochi d’artificio, che durano fino a notte fonda con dispendio e partecipazione tali da far impallidire Napoli. Al primo sorgere del sole del 2023, la città appare deserta e ricoperta da una coltre non di neve ma di giochi pirici ormai esausti; alle persone importa solo riversarsi nei giardini a godere l’epocale parentesi di caldo. Però alle tre e mezza la Staatsoper è già gremita - ancora una volta di pubblico che diresti “del posto” ma più giovane di quello del giorno prima - in attesa che Daniel Barenboim diriga “Die Neunte”, la Nona di Beethoven. Salutare doccia fredda n. 2: il concerto è atteso per le 16 ma il direttore non esce se non dopo 16 interminabili minuti e un annuncio del sovrintendente; dopodiché finalmente appare in palcoscenico un omino gracile, diafano, malfermo, che raggiunge il podio come fosse una cima himalayana. Da lì, la vecchia aquila inizia a sorvolare la partitura (a memoria naturalmente) planando su di essa con tale lentezza da risultare in alcuni momenti frustrante per chi ascolta - II e III movimento - e faticosissima per chi suona e canta - il II e il IV. Eppure anche in questa forzata lentezza, quel musicista che poco prima sembrava in fin di vita trova una qualche linfa vitale: dirige infatti come se fosse il suo ultimo concerto e, nel dirigere, sembra volersi trattenere il più a lungo insieme alla musica (la cui forma e il cui stile restano, per l’occasione e per lo stato di salute, in secondo piano) e a noi, perché fintanto che la musica gli fluirà dalle dita e dalla bacchetta e fintanto che ci sarà un pubblico a volergli bene, lui riuscirà a fugare la morte. L’orchestra fa sforzi immani per stargli dietro ma li sopporta con abnegazione e amore filiale (gli annali contano più di cinquanta esecuzioni del pezzo in trent’anni di collaborazione). Fra i solisti vocali, il più coinvolto emotivamente è René Pape, veterano e partner abituale di Barenboim in questo brano, che avverte a sua volta di abitare un pianeta diverso e più afoso rispetto a quello sul quale è nato (lo affiancano anche Camilla Nylund, Marina Prudenskaya e Saimir Pirgu). Quasi 90 minuti dopo, la Sinfonia finisce con un inno alla gioia raramente così trattenuto nella “gioia”, lasciando il pubblico plaudente per altri 15 minuti e quattro sofferte uscite sul proscenio. Esperienza poco beethoveniana ma molto umana, o forse ancor più beethoveniana proprio perché così fragilmente umana. Fuori dal teatro, la vita va avanti nella frenesia di smontare gli addobbi: c’è chi continua a crogiolarsi al calduccio della musica tradizionale e di routine, rimandando a domani lo tsunami che spazzerà via il conformismo rassicurante (vedi altre celebri piazze musicali nelle stesse ore), ma c’è anche chi resiste e chi si oppone, ci sono ancora interpreti-iceberg sui quali infrangere quel che resta della musica classica come “bene rifugio” della piccola borghesia, facendone “bene comune” strumento di analisi della società. Carlo Fiore Su “Classic Voice” di carta o nella copia digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.htmlDonizetti – La Favorite
BERGAMO - Macché La Favorita. L’opera che siamo abituati a sentire in italiano è diversaThielemann e Gatti, sfida su Beethoven
MILANO - Il passato e il futuro della Staatskapelle di Dresda si avvicendano nelle sale da -
Dibattiti e sondaggi
Mozart e il virus
“Sabato sera Sua Altezza Reale la Principessa fidanzata si è sentita male, e ieri le è comparso il vaiolo”. La principessa fidanzata è Maria Josepha d’Asburgo Lorena, promessa sposa di Ferdinando IV di Borbone re di Napoli: non ce la fa e dopo una settimana “è diventata sposa del fidanzato celeste”. Aveva 16 anni. Autore della lettera, datata Vienna ottobre 1767, è Leopold Mozart. La morte di Maria Josepha ha come conseguenza la chiusura dei teatri per sei settimane in tutti i territori dell’Impero; le opere e i concerti programmati per festeggiare il suo passaggio nelle varie città durante il viaggio da Vienna a Napoli vengono cancellati. A Vienna sono soprattutto i bambini a morire: “Su 10 bambini il cui nome viene annotato nel registro dei decessi, 9 erano morti di vaiolo”. Leopold decide di lasciare “questa città infestata”. Prende la strada di Olmütz, 200 chilometri a nord; oggi, la città si chiama Olomouc e fa parte della Repubblica Ceca. Arrivano, alloggiano alla locanda All’aquila nera, verso le 10 del mattino Wolfgang comincia a sudare, ha le guance bollenti e rosse, le mani invece sono gelate, il polso è irregolare. Il 31 ottobre il vaiolo esplode: la febbre diventa molto alta, le pustole lo ricoprono interamente, il corpo si gonfia, il naso è una palla. Leopold, un no-vax che non crede nel beneficio dell’inoculazione, già largamente diffusa, prega: in te Domine speravi, non confundar in aeternum. Il terrore dura una settimana, poi la febbre scende, le pustole si seccano, spariscono. Wolfgang si alza, si guarda allo specchio e dice: “Adesso assomiglio a Mayr”. Andreas Mayr, un violinista di Salisburgo con il volto butterato tipico di chi ha avuto il vaiolo. Per tutta la vita Mozart porterà i segni della malattia. Suo padre, con acutezza da sindacalista, pensa a una sorta di cassa integrazione per gli artisti senza lavoro: “Sarebbe opportuno che qualcosa venisse autorizzato, in considerazione delle persone che devono vivere di queste attività”. Sarebbe lieto di sapere che oggi in Italia qualcosa per fronteggiare l’epidemia Covid-19 è stato previsto. Per i lavoratori dello spettacolo, sia quelli stabilizzati che i precari (la netta maggioranza tra musicisti, danzatori, attori, tecnici), il decreto Cura Italia predispone della forme di assistenza, diverse a seconda dei diversi tipi di contratto in essere e senza escludere le numerosissime partite Iva. Sarà dunque necessario imparare come viene disciplinato dall’Inps il Fondo di Integrazione Salariale. Ma sarà solo il primo passo; il secondo è fare tesoro di questa emergenza per attrezzarci in vista delle prossime. Troppo facile prevedere, nell’immediato futuro, la difficoltà a riprendere il cammino con il passo abituale, in particolare per le realtà più deboli; la riduzione dei cachet artistici; la proposta - in nome dell’emergenza - di condizioni contrattuali peggiorative in tutti i comparti; l’affermarsi della persuasione che, di fronte alle infinite emergenze, il nostro sarà l’ultimo settore di cui occuparsi. La maggiore responsabilità ricadrà - già ricade, adesso - sulla Siae. M anche le associazioni concertistiche, le tante cooperative di spettacolo e di servizio, la compagnie teatrali, dovranno vincere la radicata tendenza all’azione individuale, riscoprendo il gioco di squadra. Non basterà pregare, come Leopold Mozart. Sarà necessario avere fiducia in nuovi vaccini. Cerchiamoli subito. Sandro Cappelletto Su "Classic Voice" di carta o nella copia digitale c'è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
Gli estremi si toccano
Gentile Direttore, la recente programmazione di due nuove opere italiane si presta ad alcune considerazioni che mi permetto di sottoporre ai lettori di “Classic Voice”. La ciociara di Marco Tutino e Ti vedo, ti sento, mi perdo di Salvatore Sciarrino, prontamente e autorevolmente recensite dalla tua rivista, condividono a mio parere un tratto essenziale: l'assenza di un requisito non negoziabile perché si possa parlare di teatro musicale. Si può scegliere di narrare una trama o di procedere senza un contesto narrativo, di scrivere o no a numeri chiusi, di essere realisti o astratti, di rendere il canto comprensibile o di frammentarlo e ridurlo a fonema, di seguire una linea melodica o di spezzarla, di rispettare l'armonia tonale o di non tener conto di alcun predeterminato procedimento armonico, ma se si va in scena, se si chiama un regista a firmare l'allestimento, se si viene programmati all'interno della stagione di una fondazione lirico-sinfonica, allora vorrei assistere a un melo/dramma. Invece, entrambi i compositori dimostrano di non avere alcun desiderio di caratterizzare e differenziare i loro personaggi con i mezzi che contraddistinguono un'opera in musica e la rendono un caratteristico genere teatrale. Il lavoro di Tutino, che condivide con il romanzo di Alberto Moravia (1957) e il film di Vittorio De Sica (1960) soltanto il titolo, procede accumulando nel tempo un generico sinfonismo nel quale nuotano tutte le voci, che si possono distinguere non in base al carattere, ma soltanto per via del diverso registro. Sciarrino esaspera una sua tipica formula - salto ascendente nell'emissione seguito da un veloce glissando e dalla ripetizione di una o più parole - e la estende a tutti i personaggi, rendendoli così indistinti. Tutino procede in presenza, Sciarrino in assenza (il protagonista, Alessandro Stradella, è presente solo attraverso citazioni musicali: quasi - si parva licet - un Godot in musica), ma l'esito non cambia. Altro elemento comune è un aspetto mistico: una mistica della banalità per Tutino, che fa della prevedibile semplicità della propria musica e della corrività del testo un orgoglioso vessillo, e una mistica del tecnicismo per Sciarrino, unita a un'autoreferenzialità che, come testimoniato dalla recente mostra a lui dedicata a Milano, assume anche tratti feticisti. Infine, le due opere condividono il disinteresse verso l'umanità possibile delle donne e degli uomini che portano in scena, ridotti a caricature vocali e a stilemi di un tempo che fu. Gli estremi si toccano. Sandro Cappelletto Su "Classic Voice" di carta e in digitale c'è molto di più. Scoprilo in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
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EventiAl via con "Elisir d'amore" su strumenti storici la nuova edizione della kermesse bergamasca
Tutti i colori di Donizetti
Lo scorso anno fu un esempio di resistenza alla pandemia: tre produzioni operistiche, diretteLyniv sarà la prima direttrice musicale di un grande teatro italiano. Qui la sua prima intervistaDa Bayreuth a Bologna: ecco il mondo di Oksana
Oksana Lyniv, ucraina, 43 anni, sarà la prima direttrice musicale nella storia delle fondazioniIn attesa del ritorno in sala al 100%, Jakub Hrůša apre Santa Cecilia con la Seconda SinfoniaMahler e la Risurrezione dei teatri
Jakub Hrůša, neo direttore ospite principale di Santa Cecilia, inaugura la stagione con la -
Novità CD
Frédéric Lodéon “Le Flamboyant”
In Francia Frédéric Lodéon è conosciuto come volto televisivo, il cui senso dell’umorismo ha aiutato la diffusione della musica classica a un ampio pubblico. Ma l’ex allievo di Rostropovic è prima di tutto un immenso violoncellista, dotato di un temperamento impetuoso. La sua eredità discografica per Erato ed Emi viene raccolta per la prima volta in un cofanetto che include numerosi inediti. Su “Classic Voice” di carta o nella copia digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
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Novità DVD
Puccini Madama Butterfly
L’opera che inaugurò la stagione 2016-17 della Scala approda in un doppio dvd curato da Decca e Rai Com. Si tratta della versione originale del 1904 (la “prima” Butterfly, poi pesantemente rimaneggiata da Puccini dopo il fiasco scaligero), con Riccardo Chailly sul podio, la regia di Alvis Hermanis e Maria José siri nel ruolo del titolo. Su “Classic Voice” di carta o in digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
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Recensioni CD
Bach – Suites inglesi n.1, 2, 3 Concerto Bwv 1052
Ritiratosi da tempo dal concertismo militante, Ashkenazy se ne esce ogni tanto con qualche disco pregevolissimo che non fa altro che confermare la statura di un artista tra i massimi degli ultimi sessant’anni. Il pianista aveva già reso omaggio a Bach attraverso le incisioni complete del Clavicembalo ben temperato, delle sei Partite e delle Suites francesi, oltre che di pochi altri pezzi sparsi tra i quali il Concerto italiano. Qui il quadro si arricchisce, per ragioni a noi ignote, delle sole tre prime Suites inglesi e gli editori hanno pensato bene di aggiungere a questa pubblicazione un bonus costituito dal Concerto in Re minore Bwv 1052 diretto da David Zinman con la London Symphony. Particolare piuttosto insolito, l’incisione del Concerto risale al gennaio del 1965 con la scelta, a quei tempi, di un accoppiamento in long playing piuttosto inedito con il secondo Concerto di Chopin, l’op. 21. Anche se l’incisione risale al 2019, fa piacere trovare ancora qualche interprete che si dedica a Bach, con somma venerazione, al termine della propria carriera (è recente la comunicazione da parte di Pollini di volere prendere in considerazione il secondo volume del Clavicembalo, scelta che fa già ingolosire tutti i suoi ammiratori). Il gesto perentorio con il quale Ashkenazy attacca la Suite n.1 in La dà subito un’idea dell’importanza di questo disco, in cui la scrittura bachiana viene ricreata su uno strumento moderno con straordinaria ricchezza di colori, senza eccessiva pedanteria ma con ovvia precisione per ciò che riguarda la realizzazione degli abbellimenti, e soprattutto con un entusiasmo, diremmo quasi una gratitudine nei confronti del genio bachiano che è davvero commovente (si ascolti come Ashkenazy “canta” la Sarabanda!). Altrettanto deciso è l’incipit della notissima seconda Suite, croce e delizia di ogni studente ma è ancora nella Sarabanda, con i suoi bellissimi agréments, che il pianista sembra confessare il proprio innamoramento nei confronti del melos bachiano. Severa la Bourrée (che differenza con la recente, gentile, lettura della Argerich), folgorante la Giga conclusiva. E nella terza Suite (che peccato la mancanza degli altri numeri) Ashkenazy ci affascina nuovamente attraverso una coloratissima lettura delle Gavotte e l’andamento inesorabile della Giga. Luca Chierici Su “Classic Voice” di carta o nella copia digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
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Recensioni DVD
Mozart – Così fan tutte
L’anno scorso il festival di Salisburgo ha voluto lo stesso andare in scena; dovendosi però eliminare l’intervallo, ridurre i tempi, stare distanziati (in teoria: in realtà, sono quasi sempre attorcinati uno all’altro, e in platea il pubblico appare senza mascherina e parecchio numeroso), ha partorito un torso tagliando parecchio. Inni e osanna, peraltro, da parte dei drogati da teatro, che purché ci si vada va bene tutto. A me non va affatto bene, se si deve fare un brutto teatro purché si faccia teatro, meglio a casa con un bel dvd. La regia di Loy provvede a dare un minimo di senso plasmando un Così movimentatissimo, con grandi corse lungo l’enorme ampiezza del palcoscenico della Sala Grande, un gran buttarsi per terra, uno stare in scena quando non si dovrebbe, a fare i pali con occhi sbarrati mentre un altro canta. Qualche idea è da tenere a mente: le due ragazze che compaiono a tessere le lodi non del proprio amante ma di quello della sorella; “Come scoglio” Fiordiligi lo indirizza proprio al suo amante Guglielmo, quasi a respingerlo consapevolmente, e nel finale primo i quattro scoprono l’attrazione d’un eventuale scambio di coppie. Che la scoperta dell’attrazione fisica sia un processo doloroso, e che i cinici Alfonso e Despina vivano la vicenda soffrendo della consapevolezza della propria aridità, è molto interessante: ma i tagli del second’atto privano di chiarezza ogni serio tentativo drammaturgico, rendendo lo svolgersi della vicenda troppo zoppicante e sbrigativo. Solito problema, peraltro, che ha reso e tuttora rende difficile da comprendere e da accettare l’ottica supremamente illuminista del Così. Sicché il prim’atto c’è quasi tutto, i tagli sono praticati nel secondo perché si persevera per l’ennesima volta nel fatale equivoco di ritenere tutta l’azione appannaggio del primo atto, mentre nel secondo non avverrebbe niente: laddove avviene per l’appunto - attraverso la successione delle arie solistiche che frammezzano i due decisivi duetti - l’azione vera che rende supremo capolavoro quest’opera, ovverosia la scoperta di quanto l’impulso sessuale possa vincerla su quello sentimentale, e come si possa amare due persone contemporaneamente senza necessariamente essere spregevoli (o zoccole, come talora sussurra l’ottica maschilista). Purtroppo, se la regia ha spunti embrionali ma interessanti, la direzione non ne ha. Chiassosa, sbrigativa, pochissimo articolata all’interno, qua e là financo rozza nonostante l’ostentato splendore del tessuto strumentale, dove peraltro come da tradizione viennese atavica (che i Filarmonici paiono recuperare con malcelata soddisfazione) gli archi annegano nel loro oro antico i legni che viceversa sono il cuore pulsante dell’animo mozartiano. Cast discreto. Magnifici i timbri vocali di Bogdan Volkov e di Andrè Schuen, tenore e baritono che senza dubbio vedremo spesso nelle locandine del prossimo futuro: speriamo tuttavia imparino a fraseggiare un po’ di più e non si limitino a pattinare sulla superficie di scritture ben altrimenti complesse di quanto fanno sentire qui. Elsa Dreisig ha un bel registro acuto e parecchi problemi giù, con fissità assortite e fraseggio abbastanza qualunque. Marianne Crebassa, puntualmente portata sugli scudi da tutta la critica francese, a me continua a dire niente: pigola e ciangotta, tutta smorfie e moine da mal tempo che fu. Lea Desandre è bellissima da vedere ma la sua vocetta acidula la rende molto sgradevole da sentire. E Johannes Martin Kränzle, grande wagneriano, con Alfonso c’entra niente. Elvio Giudici Su “Classic Voice” di carta o nella copia digitale c’è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html
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Genio controverso, la cui arte era profondamente radicata nella tradizione dell’idealismo romantico, Wilhelm Furtwängler ha
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Per celebrarne i sessant’anni, Deutsche Grammophon ha raccolto in dieci cd (più un Blu Ray audio) l’integrale delle incisioni di Olivier
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Il 16 dicembre 2021 ricorre il 100° anniversario della morte di Camille Saint-Saëns. Warner Classics gli dedica una raccolta di 34 cd (illustrati con dipinti di Monet, Degase e
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Bamberger Symphoniker, Münchener Kammerorchester e Rundfunk-Sinfonieorchester convergono in una raccolta che fa luce su alcune composizioni orchestrali giovanili o quasi mai eseguite
Ultime Novità DVD
Belcanto The Tenors of the 78 Era
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Enrico Caruso, John Mc Cormack, Leo Slezak, Tito Schipa, Richard Tauber, Beniamino Gigli e altri fino a Jussi Björling (nato nel 1911 e scomparso nel 1960) in una
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Il sassofonista Gerry Mulligan (1927-1996) esegue due sue composizioni pensate appositamente per sax baritono e orchestra insieme all’Orchestra Filarmonica di Stoccolma, diretta per l’occasione da Dennis Rusell
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In formato bluray la Dynamic pubblica il debutto nella regia d'Opera di Dario Argento del 2013 con Macbeth di Verdi al Teatro Coccia di Novara. Il Cast vede Giuseppe Altomare nel ruolo del titolo e Dimitra Theodossiou
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Un ritratto della camaleontica chitarrista di formazione classica Sharon Isbin in un documentario che include la performance alla Casa Bianca ed esecuzioni di musiche di Howard Shore, Mark O’Connor (che concerta con