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Mondo Classico
Le Fenice siete voi
PERSONAGGIO DELL'ANNO 2025 ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO LA FENICE DI VENEZIA La nomina di Beatrice Venezi come nuova direttrice musicale della Fenice è stata annunciata il 22 settembre 2025. Non è questa la notizia dell’anno, ma lo è piuttosto la reazione che si è scatenata subito dopo. Un movimento che ha unito maestranze e pubblico come non si vedeva da tempo, almeno in ambito musicale e artistico. Per “Classic Voice” - una comunità di critici e collaboratori qualificati, che ogni dicembre si raduna per raccogliere i “propri” personaggi dell’anno - è l’Orchestra (e ovviamente il Coro) della Fenice il volto - anzi, i volti - che meglio rappresentano questo 2025 ormai al congedo. La tenacia con cui i musicisti veneziani hanno difeso la propria autonomia, a dispetto di una decisione goffamente motivata dal nuovo sovrintendente Nicola Colabianchi, è l’immagine di un sentimento civile, oltre che artistico, sul quale - a prescindere da come si svilupperà la vicenda - è possibile immaginare un futuro meno nero di quanto ora sia lecito attendersi. Gli altri personaggi del 2025 secondo l'intera redazione del nostro mensile sono: Francesco Giambrone, Sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma Daniele Rustioni, direttore d'orchestra Maria Joao Pires, pianista Francesco Filidei, compositore Mariangela Sicilia, soprano Silvia Colasanti, compositrice, direttrice del Festival della Valla d'Itria Pier Galli, Ernesto Assante (in memoria), critico musicale, ideatore dell'Enciclopedia La musica contemporanea (Treccani) Pier Galli, ristoratore e fondatore del Premio Galleria Scopri le motivazioni di tutti i premi sul numero di dicembre (319) di "Classic Voice"A 90 anni Quirino Principe si racconta
Ci accoglie cortese nella sua casa vicino a piazza Napoli, a Milano. Libri dall’ordine recondito accompagnano il visitatore, foto degli affetti familiari, riconoscimenti di una vita di studi: a novant’anni la lucidità di Quirino Principe è inscalfibile, l’ironia, lo scatto nella conversazione sono intatti. Musicologo, poeta, germanista, traduttore: un crocevia di storie e mondi che ci ha permesso di scorgere in una lunga conversazione, aprendo un anfratto su una vita, iniziata a Gorizia martedì 19 novembre 1935, che si intreccia con la grande storia del secolo scorso. Lo studio è ancora il centro delle sue giornate? “È quasi una conquista. Ho avuto un periodo di stanchezza quando è morta mia moglie: a lei mi legava un amore unico. Ora la mattina è dedicata in gran parte a odiosi esercizi ginnico-terapeutici. Quindi, ricupero la notte. Io ormai non vado più a dormire. Ho sempre dormito molto poco, pochissimo”. Oggi percorre nuove strade intellettuali o ricalca gli amori di una vita? “Entrambe le cose. In parte ritorno nel pozzo del passato, dove si scoprono cose che non avevo ancora capito, certe poesie, certe musiche o certi aforismi filosofici che comprendo soltanto adesso”. Ci mostra una serie di quadernetti in cui annota, con grafia minutissima e meticolosa versi italiani, provenzali, tedeschi, latini, ellenici, ispanici, russi, islandesi arcaici: “mi fanno compagnia durante la notte.” Con questa immagine si potrebbe sintetizzare la sua figura di studioso. C'è un exergo, in greco, il verso 757 (ψ’ν’ζ’) dell’Agamennone di Eschilo: ‘Diversamente da tutti gli altri, io penso con la mia testa” (dicha d’allon monòfron eimì)’. La gente si arrabbia a morte quando lo legge, e sbotta: ‘Chi crede di essere?!’. Seguo sempre un frammento di Eraclito, ‘ho indagato me stesso’. Difficile, vero? È quasi impossibile, poiché uno che indaghi su se stesso si ‘tuizza’, si estranea, diventa un tu, da io che era. Ne consegue la dedica…”. A Lucifero… “Avevo una nonna medium. Quando uno frequenta quel mondo si resta come risucchiati. Ha un fascino irresistibile. Non penso certo al demone da quattro soldi della finanza in giacca e cravatta, oppure a quello di certe logge massoniche, oramai veramente trash. Tutto ciò che ho fatto in vita mia aveva come finalità non chiedere, bensì conoscere, sapere. Lucifero è il portatore della luce che si ribella al buio. Ho dedicato un mio piccolo libro agli Yazidi, perseguitati dall’Isis, che vedono in Lucifero il redentore. Quella mia meditazione prendeva le mosse dall’ Inno ad Arimane di Leopardi. Penso che avremo una bella sorpresa dopo la nostra vita, se ci comportiamo bene, come nel romanzo di Chesterton, L’uomo che fu giovedì, in cui alla fine si scopre l’inanità della contraffazione e dell’inganno. È sempre un trauma, sfiorare i confini tra l’essere e il nulla. Il mondo può anche esplodere, se i due termini vengono a contatto. E questo a volte, purtroppo, è successo: esplori i capolavori dell’induismo, ti immergi nei testi sanscriti, e poi pensi alla perversione (anzi, al pervertimento) del significato originario della svastika. Quando la vedo nel film Parsifal di Syberberg ho lo stomaco in subbuglio”. Possiamo sfatare il mito che lei sia poi così diabolico? “Decidete voi. Quando ho iniziato la rubrica Gli imperdonabili sulla rivista ‘Studi Cattolici’ ho chiesto stupito perché lo chiedessero a me, non ‘credente’. ‘Perché sei cattivo’, mi risposero, e quasi mi fece piacere. Certo non mi manca la pietà nei confronti del dolore del prossimo, anzi, verso lacrime molto spesso. Ed è vero che ho sempre avuto rapporti ottimi e amichevoli coi miei studenti”. Quando nasce il suo interesse per la poesia? “Prestissimo. Avevo quattro anni. Ricordo che, prima ancora di andare a scuola, sentivo dire: ‘Ma guarda, questo bambino sa già scrivere. Tu che cosa scrivi?’. Rispondevo: ‘Scrivo poesie’. Naturalmente, non era vero. La poesia è un lavoro serio e delicatissimo, ed esige una lunga e faticosa maturazione tecnica. Ma da quella fase di vita, tra gli 8 e i 10 anni di età, mi sentii obbligato a renderle reale quel mio desiderio. Così il giorno dopo ho cominciato davvero a scriverne. Nel 1973 pubblicato il mio primo libro di poesia, Il libro dei cinque sentieri. Ho usato la forma metrica più difficile, la sestina arnaldesca, ABCDEF, FAEBDC, CFDABE, ecc... La poesia è anche un lavoro matematico”. Lei è nato a Gorizia e lì ha trascorso l’infanzia… “E di questo sono felice. Quelle coordinate geografiche mi hanno permesso di conoscere la lingua di Dante, e, nello stesso tempo, di nascere in una ‘terra di mezzo’, una città plurinazionale, come Trieste, città di mio zio. Nelle mie escursioni triestine frequentavo la Libreria Antiquaria di Umberto Saba. Durante la guerra, dopo il settembre 1943, fummo sfollati. Dovemmo abbandonare Gorizia, e trovammo rifugio in un paesino, Medea d’Isonzo. Dopo il processo a Ciano, Gorizia fu annessa al Terzo Reich. Al piano sotto al nostro alloggio giravano dei giovani soldati, peggio, delle giovani SS. Io giocavo da solo a Monopoli in un minuscolo giardino. Lanciavo i dadi, cambiavo sedia, immaginavo di essere altri tre giocatori, finché a un certo punto non chiesero rozzamente di aggiungersi al gioco anche i soldati delle SS. Ma erano molto incapaci, e così li rimproveravo continuamente. Mi ero portato da Gorizia alcuni libri, fra cui un vecchissimo vocabolario italiano-tedesco. Così, ho giocato con loro per qualche mese. Tornati a Gorizia, scampati a malapena alle stragi delle foibe, ricordo che assieme ad alcuni compagni di prima media andavamo fino a un ospedale dove erano acquartierati i soldati di Tito, armati fino ai denti. E li provocavamo. Siamo stati assolutamente incoscienti, perché questi avevano il dito sul grilletto”. Quando ha lasciato Gorizia? “Mi laureai a Padova con una tesi su Filone d’Alessandria. A Padova ero amicissimo di Pierluigi Petrobelli, ricordo il palazzo aristocratico di Prato della Valle, una cosa favolosa, la servitù in livrea e le donne anziane in crinolina. La sera veniva Claudio Scimone. Insieme organizzavamo concerti sinfonici, invitavamo Gulda, Badura Skoda, Cortot. Poi a Belluno, nel 1959-1960, prestai il servizio militare come ufficiale di artiglieria da montagna. E qui applicai il ‘Teorema Principe’. Si trattava di essere complice con il lato migliore dell’anima di quei soldati, di fingermi severissimo, una bestia sadica, coram populo. Era teatro! Si fingeva che qualcuno dei soldati avesse commesso un'azione riprovevole. E io, nelle camerate, inscenavo un processo durante l’ora del pranzo. Gli alpini, carissimi e bravi, si divertivano. Imparavano a fare teatro. Ma, finito il divertimento, la disciplina militare riprendeva il sopravvento. La domenica sera, quando la libera uscita era più prolungata, molto spesso i soldati semplici mi invitavano a cenare con loro, e vi assicuro che era uno spasso imperdibile. Per disposizione di natura militare-burocratica, quegli alpini erano per il 70 % veneti (non trentini né südtiroler, che andavano alla brigata Tridentina, e neppure giuliani o friulani, cha andavano alla Julia), e per il 30 % abruzzesi, romagnoli e toscani della Lunigiana. Vi lascio immaginare il miscuglio dialettale, a cena: esilarante soprattutto dopo qualche alzata di gomito con i vini di Valdobbiadene. Ogni volta, i soldati mi chiedevano di raccontare le trame dei drammi di Eschilo o di Shakespeare, o di declamare qualche canto dantesco. Quando mi accade di farlo ora, e mi accade spesso come sapete, penso sempre a quelle serate con gli alpini. Il colonnello che comandava il 6° Reggimento della brigata ‘Cadore’, dopo qualche perplessità, si complimentò con me per la lezione di drammaturgia, e anzi mi pregò di organizzare qualche proiezione di film all’aperto, la sera, prima della ‘ritirata’, per educare quei ragazzi a capire che il cinema è cultura. Ringrazio la memoria di quel colonnello con tutto cuore. Si può essere severi e intelligenti”. Infine, Milano. “Già! Vivo a Milano dal 1962. Mi fu affidata una supplenza nell’Istituto Tecnico ‘Cattaneo’. Non era l’ideale come tipo di scuola per me, ma vi trovai colleghi di prim’ordine e studenti simpaticissimi, culturalmente ingenui… e proprio questo mi insegnò quale fosse la grave e delicatissima responsabilità di un insegnante giovane e alle prime armi, come ero allora. Certo, il Liceo Classico, dove arrivai dopo avere vinto il concorso, era tutt’altra cosa: il mio paradiso. Ma l’entusiasmo fresco e vivo con cui le ragazze e i ragazzi del ‘Cattaneo’ mi avevano accolto, resta indimenticabile nel mio ricordo. Oltre all’insegnamento, che è stato il mio mestiere per tutta la vita, a Milano trovai subito da lavorare presso l’editore Garzanti. Livio Garzanti era un intelligente caratteriale, drammaticamente tormentato da un desiderio di perfezione e dall’urto contro la successiva inevitabile delusione. Coltivava e frantumava grande amore e poi odio mortale per i suoi dipendenti. Il giorno dopo la strage di Piazza Fontana entrò nello stanzone dove stavamo lavorando e si rivolse a me: ‘Dottor Principe, ho l’impressione che i responsabili siano i suoi amati altoatesini’. Allora la parte peggiore di me venne fuori: gli rovesciai contro una scrivania e me ne andai furioso. Appena ero arrivato a casa, e subito squillò il telefono. Temevo che fosse un infuriato Garzanti, che minacciasse di rovinarmi, e invece era la voce flautata di Alfredo Cattabiani che, saputo dell’incidente (ma come? con tanta velocità ?), mi invitava a lavorare per la neonata casa editrice Rusconi, che avrebbe pubblicato quasi tutti i miei libri fino a 1996, fra cui Mahler e Strauss". A Mahler e a Strauss ha dedicato due libri voluminosi. “Ecco, Strauss è ancora poco esplorato. Penso al Krämerspiegel op. 66, un corpus poco noto di Lieder su sonetti tedeschi, scritti da un poeta di cabaret, Alfred Kerr. Strauss li mette in musica come se dovesse veramente scrivere per cabaret, cosa che gli “riesce” (!) fino a un certo punto, poiché è musica di altissima qualità, ironica e sublime. In uno di quei sonetti c’è la citazione del tema finale di Tod und Verklärung, un’autocitazione meravigliosa. Quel ciclo di Lieder è una enciclopedia in miniatura, geniale. Lo feci udire durante la mia relazione in un convegno alla Musikhochschule di Graz: nessuno di quei musicologi austriaci, tedeschi, slavi, inglesi, lo conosceva!”. In diverse occasioni ha dichiarato che il grande amore musicale della sua vita è Robert Schumann. “Prendete il Lied In der Nacht. È un’arcata che non si interrompe, cantata da una voce femminile cristallina, limpida, una linea melodica malleabile come argilla. Termina, non con una cadenza perfetta, ma con una cadenza plagale, sulla quarta. Allora interviene il tenore, un’ottava sotto, che la riprende e ripete tutto. È la semplicità che domina l’universo. È tutto ridotto a questo”. E la vita musicale oggi, come la vede? “Trovo molto riciclo. Il passato c’è, c’è sempre stato, e dev’essere metabolizzato. Anche Bach lavorava sul già fatto, come tutti. Però può esserci un sovrappiù oltre il quale l’edificio non sta più in piedi, l’immissione del già udito diventa così ingombrante che squarcia la struttura che l’artista si impone. Quando c’è un talento straordinariamente assimilativo è un pericolo, come Max Reger, una musicalità di incredibile ricchezza, ma ce n’era troppa. O Hindemith, il doctor subtilis della musica. Invece Strauss è riuscito ad avere un rapporto col passato molto più libero. A un certo punto ha deciso in modo anarchico di non creare un prima e un dopo dei valori, lo diceva un paio di anni poco prima della sua morte, quando disse chiaramente che a lui non interessa assolutamente nulla di somigliare al passato”. E tra i compositori italiani del Novecento storico? “A proposito di assimilatori, Alfredo Casella, è una musica ascoltata, digerita molto bene. Ma non aveva la personalità di Malipiero: Casella serviva la musica, Malipiero si serviva della musica, la faceva propria. Da riscoprire sarebbe anche Perosi, una sorta di Bruckner italiano. Tra gli interpreti ce ne sono alcuni cui è particolarmente legato? “Per quanto riguarda Mahler, mi colpì Klaus Tennstedt, il modo austero e ironico di interpretarlo. Tra i cantanti Gérard Souzay. Nessuno ha saputo interpretare Frauenliebe und Leben o Dichterliebe come lui, con un tono insinuante, non tedesco, francofono, lievissimamente androgino, che però era struggente.” E i colleghi della musicologia e della critica musicale? “Massimo Mila è venuto qui a cercarmi, dopo aver letto il libro su Mahler ne ha scritto una immensa recensione sulla ‘Stampa’ . Paolo Isotta era un amico, ne ho un caro ricordo, anche se non ero d’accordo con le sue idee politiche. Lo conobbi nel 1973. Aspettavo il treno alla stazione di Napoli, erano le undici e mezza di sera. Che cos’era la stazione di Napoli a quell’ora! Sbandati di ogni genere. Arriva una banda di scugnizzi, malvestiti, sporchi, che schiamazzavano, dicevano sconcezze, avranno avuto sedici anni. Ce n’era uno piccolo di struttura, un po’ strano, il più sguaiato di tutti, a un certo punto esclama: ‘Ich bin kein neapolitanischer General’, che è una citazione del Rosenkavalier. Era Paolo Isotta! Gli raccontai l’episodio, molti anni dopo”. Lei ha attraverso la seconda guerra mondiale, poi la Milano degli anni di piombo, la Milano del riflusso. Che rapporto ha avuto con la storia, con la politica? “Un rapporto non soddisfacente, soltanto interiore, pensato, anche maledetto”. Lei è stato un traduttore di grandi autori, da Tolkien a Jünger. “C’è un profondo legame tra queste due figure. La geografia ideale del Signore degli Anelli è anche un po’ quella delle Scogliere di marmo di Jünger. Nel Signore degli Anelli tutto è fantasia, però è chiaro che il Bene è Nord-Ovest e il Male è Sud-Est. A mano a mano, che si va verso sud-est i nomi diventano prima fiabeschi e poi arabi, musulmani, che indicano il male proprio, Mordor. Così come nei Wilhelm Meisters Wanderjahre di Goethe i paesaggi non sono più realistici, non è più la Germania. Nella geografia di Jünger il Bene è l’esotico, noi invece siamo malvagi. In Jünger la realtà è mescolata con l’immaginario, si parla di cose reali, dell’Africa, dell’Asia, come nell’Operaio, dove a un certo punto si parla di un aviatore il quale va a bombardare Shanghai, vengono fuori questi frammenti di realtà. In Jünger ci sono cose terribili, atroci, che diventano gentili perché la descrizione le nobilita, per esempio la storia delle stragi compiute da pirati cristiani. C’è un capitolo nel Cuore avventuroso, meraviglioso, che è ‘La cava di ghiaia’ dove a un certo punto si mostra come tutte queste esperienze si incontrano in un punto all'infinito, e siamo trascinati a vedere queste cose piccolissime e minutissime”. Quali sono i filosofi che più l'hanno formata? “Gli antichi, nessuno li supera, nessuno. E nel Medioevo, mi piace moltissimo Sigieri di Brabante, messo tra gli eretici da Dante, ma in Paradiso. E poi amo molto Spinoza, naturalmente. Non amo particolarmente Hegel o Schelling. Cartesio mi ha appassionato il primo anno di università, poi me ne sono un po' allontanato. E naturalmente Schopenhauer e Nietzsche. Tra i viventi stimo Giorgio Agamben e Vito Mancuso. Nella mia concezione dell'universo ogni oggetto è animato, come nel pensiero di Giordano Bruno. A tal proposito ho composto una poesia a partire da un ritrovamento archeologico, il sarcofago etrusco di una bambina sepolta insieme alla sua bambola. Nel mio componimento la bambola parla alla bambina. E fra i poeti è noto il suo amore per Borges… “Nella poesia Scacchiera, Borges si domanda chi c’è dietro a Dio? In fondo, se noi lo smettiamo di pensare ad una piramide con une misure rettilinee, e incominciamo a pensare secondo la curvatura che è palese nel cosmo, vediamo che il problema si risolve facilmente. E poi andando avanti in cerchio siamo a diciamo 180 gradi di distanza perfettamente simmetrici perché il tutto è così. Che cos'è la piramide? È qualcosa che ha il di sopra che culmina con un enorme piazzale. Sì, per noi uomini è qualcosa di piccolissimo ma per i microbi è come una piazza d'armi e quindi tutto ricomincia da lì, no? Si va sempre verso l'analisi di misure sempre più piccole. Se io volessi andare al Polo Nord, quale parte dei miei piedi è sul Polo Nord? È un punto geometrico senza estensioni allora non c'è nulla che si trovi esattamente al Polo Nord. Non c'è più bisogno di domandarsi che cosa c'è sopra questa cosa perché c'è un'altra cosa sopra la quale ci sarà un'altra cosa. Come nel Novellino, quando i dotti della Sorbona si interrogano su chi sia sopra Dio: ‘il cappello’ risponde il giullare. Tutti ridono, ma il rettore della Sorbona, a malincuore osserva: “Resta il fatto che non sappiamo rispondere…”. Marco Brighenti e Valentina Trovato Il Teatro alla Scala festeggia Quirino Principe il 21 novembre al ridotto dei palchi Toscanini alle ore 17. Nell'occasione viene presentato il suo nuovo libro "Un wagneriano alla Scala" a cura di Raffaele Mellace (Libreria Musicale Italiana). Saranno presenti, oltre all'autore e al curatore, Andrea Estero e Marcello Nardis Su "Classic Voice" di carta o in digitale c'è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html -
Recensioni Opere Concerti e Balletti
Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk alla Scala- recensione
MILANO - Stalin bandì Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, proibendone di fatto l’esecuzione e interrompendo la carriera di operista di Sostakovic, allora ventottenne. La Scala gli restituisce il maltolto ambientando negli anni dello stalinismo il titolo che ha inaugurato la stagione ’25-26. Lo spostamento funziona ed è giustificato dal fardello che questo titolo censurato si porta dietro: tra l'altro la prima italiana alla Biennale di Venezia con la direzione di Nino Sanzogno e le scene di Renato Guttuso cadde nel 1947, quando l'opera era vietata oltre cortina e lo stalinismo trionfava a costo di una pesante repressione. Proviamo solo a immaginare quali capolavori l’autore avrebbe potuto lasciare in eredità se il dittatore non si fosse messo in mezzo. Non siamo dunque in una arretrata provincia della campagna russa in epoca zarista, come nel racconto di Leskov, ma in una cornice urbana dell’Urss anni Cinquanta: come a ribadire che i vizi della società prerivoluzionaria - patriarcato, maschilismo, sessuofobia, violenza, sfruttamento - sono ancora tutti lì in forme diverse anche nella società del socialismo reale. Ma c’è un’altra ragione che rende lo spettacolo di Vasily Barkhatov “giusto” e in sintonia con la vorticosa direzione di Riccardo Chailly, ed è la gestione cinematografica dei tempi e delle azioni. Sostakovic era autore di colonne sonore proprio negli anni in cui il cinema sovietico scopriva il sonoro, più frequentato del teatro espressionista. Le regia Lo spettacolo della Scala inizia con un flashback (improprio parlare di “teatro nel teatro”): la protagonista è stata appena arrestata dalla polizia che la sta interrogando. “Certo, questa notte ho dormito, mi sono alzata, ho bevuto il tè con mio marito, mi sono di nuovo distesa”. E l’inizio sembra davvero una deposizione, accompagnata dalle immagini degli oggetti e prove dei delitti proiettate dietro la scrivania dell’interrogatorio che sale su e giù da una botola. Le efferate azioni successive dell’opera sono quindi ricordate in caserma e come “montate” cinematograficamente. Nel racconto di Barkhatov la polizia è lì a scrutare, riprendere, fotografare, documentare: il Kgb mette il naso perfino in camera da letto, invade Le vite degli altri, come la Stasi nell’omonimo film del 2006; il che procura pure un certo effetto comico e satirico che l’opera - a differenza del film - possiede in massimo grado. Insomma, la violenza, gli stupri, il sesso, gli omicidi ci sono, ma il regista li immette in un discorso visivo nuovo, non semplicemente realistico, o sboccato, ma thrilling e comico-poliziesco: “tragedia satirica” secondo Sostakovic. Certo, la confezione è fastosa, da “prima della Scala”: il ristorante d’epoca sovietica frequentato dalla Nomenklatura del patriarca Boris - che l’impianto scenico scorrevole di Zinovy Margolin alterna agli ambienti retrostanti délabré - fin troppo scintillante e lussuoso; e i cuochi che si aggirano dappertutto, e le cameriere, hanno qualcosa di disneyiano (però il coro preparato da Alberto Malazzi è da pieni voti con lode). Ma non mancano sottolineature e caratterizzazioni originali e pertinenti: per esempio il sadismo di Boris, che dopo aver frustato Sergej trema come uno psicopatico; o il carattere vago, assente, infido di quest’ultimo che qui lascia che Katerina strangoli da sola il marito e rifiuta il sesso con lei rifugiandosi sotto la coperta ben prima del tradimento con Sonetka nel quarto atto. Se poi il tema dell’opera è non solo il sesso desiderato da Katerina, ma anche quello mancato o detestato - l’impotenza del marito, che non la sfiora e non la mette incinta, e del viscidume del suocero, che vorrebbe possederla al posto del figlio - Barkhatov dà rilievo a entrambi: l’apparizione del fantasma di Boris (la cui voce è qui affidata al coro) a Katerina è l’incubo di essere stuprata dallo stesso suocero, e il ritorno del marito coincide col goffo e tardivo tentativo di impalmarla. Perfetta nello spirito comico-sarcastico dell’opera la sostituzione del pope ubriaco con un cuoco travestito alla bell’e meglio per dare la benedizione a Boris appena assassinato dalla Lady con un piatto di funghi condito al veleno per topi, come la scena del funerale di Boris, alla cui salma vengono riservati i grandi onori destinati ai notabili del Partito ma che poi vanga per il ristorante (non si sa dove spostarla) per finire dimenticata sotto un tavolo. Nel terzo e quarto atto gli spunti teatrali si fanno più rari e resta solo la cornice fastosa (la scena satirica dei poliziotti nullafacenti e ubriaconi, qui schierati su un praticabile tutti elegantissimi in divisa bianca, è troppo patinata per graffiare davvero) e le sorprese a effetto: il camion della polizia che irrompe in scena spaccando la vetrata del ristorante per traslare la scena in Siberia o l’omicidio/suicidio finale come autocombustione (invece che affogamento nel lago ghiacciato), benissimo realizzato dalle stuntwomen Beatrice Del Bo e Marie Schmitz - impressionanti torce umane per la prima volta impiegate alla Scala - sono tanto belli da vedere quanto teatralmente infecondi ed effettistici. La direzione e il cast Poliziesco, noir o serie televisiva che diventi, lo storytelling si trova con la superlativa direzione di Riccardo Chailly, anch’essa perfetta nello sbalzare l’avanguardismo della partitura, nel restituire la sua matrice urticante e modernista, ma non espressionista e teatralmente surreale come quella del precedente Naso. Qui la narrazione ha un ritmo indiavolato, frenetico che accosta, accavalla, “divora” stili e riferimenti disparati ma li lascia scorrere l’uno nell’altro come fagocitandoli. La violenza sonora ricercata da Chailly non è solo nel volume delle estroversioni orchestrali, fiammeggianti, aguzze e tutt’altro che belle o aggraziate, talvolta anzi agghiaccianti, ma nella velocità implacabile, nella spigolosa asciuttezza con cui profila timbricamente e consuma le fulminanti invenzioni musicali d’autore, tra acidi scherzi sinfonici, meccaniche, impassibili - e dunque tragiche - passacaglie, emersioni di stralci di musica di consumo e marionettistici ostinati da cinematografo, restituiti da un’orchestra scaligera padrona di una scrittura sfidante, con fiati e percussioni penetranti e sovraesposti. Ma Chailly sa anche creare zone di vuota desolazione, di afasica sospensione e immobilità: l’alternativa alla bulimia ritmico-dinamica è la negazione del movimento, il nulla che si spalanca e si lega all’unico personaggio che prova sentimenti ed espressivamente torreggia, Katerina. Sarah Jakubiak ne fa un ritratto di appassionata fragilità, di donna affatto mostruosa ma umanamente volitiva, con una voce più insinuante e sferzante che imponente, di intenso lirismo dove occorre. Alexander Roslavets canta bene ma recita meglio la parte del suocero laido e tracotante. Najmiddin Mavlyanov è un Sergej poco macho e sbruffone, piegato dalle frustate, attento alla parola e al canto. Yevgeniv Akimov un Zinovij di voce poco intonata e caricaturale. Gli altri bene (Ekaterina Sannikova, la cuoca Aksin’ja, Elena Maximova, Sonetka), con un eccesso di caratterizzazione e brutte voci nelle parti di fianco (ma nel terzo atto il sergente di polizia, Oleg Budaratskiy, canta molto bene). Alla sua dodicesima inaugurazione Chailly propone un grande titolo del Novecento storico europeo. Dispiace solo che la Scala arrivi solo adesso a investire tutte le sue energie su un repertorio che dovrebbe invece far parte della sua stessa identità e missione. Andrea Estero Su "Classic Voice" di carta e in digitale c'è molto di più. Scoprilo tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.htmlIl viaggio nei festival austro-tedeschi continua, II: Salisburgo
A Salisburgo vince la proposta di Peter Sellars ed Esa-Pekka Salonen. One Morning Turns intoViaggio nei festival d’opera austrotedeschi, I: Bayreuth
Visitare i tre principali festival austro-tedeschi dedicati all’opera (Bayreuth, -
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EventiBergamo, 18 luglio
Herbie Hancock chiude Estate Jazz al Lazzaretto
Atteso il 18 luglio a Bergamo a conclusione della rassegna “Estate Jazz al Lazzaretto” ,Il direttore tedesco dà forfait al progetto del Ring a Milano. L'Oro del Reno a Simone YoungThielemann perde l’Anello
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Il febbraio del Carlo Felice di Genova è dedicato a Mozart, e più precisamente al -
Novità CD
Frédéric Lodéon “Le Flamboyant”
In Francia Frédéric Lodéon è conosciuto come volto televisivo, il cui senso dell’umorismo ha aiutato la diffusione della musica classica a un ampio pubblico. Ma l’ex allievo di Rostropovic è prima di tutto un immenso violoncellista, dotato di un temperamento impetuoso. La sua eredità discografica per Erato ed Emi viene raccolta per la prima volta in un cofanetto che include numerosi inediti.
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Recensioni CD
Lines of life Schubert & Kurtág
Con il titolo, “Linee della vita”, preso dal primo verso di una poesia di Hölderlin, il cd propone sette Lieder di Schubert, uno di Brahms e tredici brevissime pagine vocali di György Kurtág, seguite da una intervista di diciotto minuti al compositore ungherese, condotta dal baritono Benjamin Appl, che è il più impegnato tra gli interpreti. In due Lieder collabora con lui al pianoforte lo stesso Kurtág (che per anni aveva formato un eccellente duo pianistico con la moglie Marta, oggi scomparsa), in Schubert ascoltiamo James Baillieu, mentre Pierre-Laurent Aimard interviene soltanto in quattro liriche di Ulrike Schuster, dovute a Kurtág. Il ciclo Hölderlin-Gesänge op. 35A impegna soltanto la voce, con l’eccezione di un breve frammento in cui intervengono con forte effetto drammatico un trombone (Csaba Bencze) e una tuba (Gergely Lukács). Il compositore ha privilegiato le poesie degli anni in cui Hölderlin era chiuso nella torre a Tubinga, quelle che avevano interessato molto Holliger, e ne ha scelte tre, accostandole a due frammenti anteriori e ponendo poi alla fine dell’op. 35A una poesia di Paul Celan, Tübingen, Jänner, in cui Hölderlin viene citato. L’intensità della scrittura vocale di Kurtág trova in Appl un interprete eccellente, e anche il suo Schubert (Ganymed, Im Frühling e altre pagine bellissime) è del tutto persuasivo: nella sua vita di insegnante Kurtág non ha mai dato lezioni di composizione, ma di interpretazione, conquistandosi anche in questo ambito grande fama. Con ragione dunque Appl può presentare il suo cd come il risultato di un incontro e una collaborazione eccezionali, avvenuti quando il compositore aveva 98 anni. Dovrebbe compierne cento il 19 febbraio 2026, da tempo non viaggia più (non lo ha fatto neppure per la prima delle scene da Fin de partie di Beckett). La intervista è solo una curiosità, in tedesco, con stampate le traduzioni (quasi integrali) in inglese e francese.
Paolo Petazzi
Ultime Novità CD
Wilhelm Furtwängler
The Complete Studio Recordings on Deutsche Grammophon (4 Lp Dg)
Genio controverso, la cui arte era profondamente radicata nella tradizione dell’idealismo romantico, Wilhelm Furtwängler ha
Olivier Latry
The Complete Recordings on Deutsche Grammophon (10 cd + Blu-ray Dg)
Per celebrarne i sessant’anni, Deutsche Grammophon ha raccolto in dieci cd (più un Blu Ray audio) l’integrale delle incisioni di Olivier
Saint-Saëns – Edition
(34 cd Warner)
Il 16 dicembre 2021 ricorre il 100° anniversario della morte di Camille Saint-Saëns. Warner Classics gli dedica una raccolta di 34 cd (illustrati con dipinti di Monet, Degase e
THE UNKNOWN RICHARD STRAUSS
(15 cd Deutsche Grammophon)
Bamberger Symphoniker, Münchener Kammerorchester e Rundfunk-Sinfonieorchester convergono in una raccolta che fa luce su alcune composizioni orchestrali giovanili o quasi mai eseguite
Ultime Recensioni CD
Bach L’Arte della fuga
ensemble Phantasm
cd Linn 759
Le opere-mondo, come l’Arte della Fuga Bwv 1080 di Bach, sono popolate da abitanti di specie assai diverse: clavicembalisti solitari alla ricerca di trascendenza, pianisti
Glass Another Look
ensemble Les Métaboles
direttore Léo Warynski
cd b.records LMB073
L’intestazione è infedele. Diciamo incompleta: manca un autore. Non c’è solo la musica di Philip Glass, qui, ovvero i circa
Boulez the composer Opere complete e intervista
13 cd Dg 4847513
Pierre Boulez era nato nel 1925, e in occasione del centenario la Dg ripropone la raccolta di tutte le sue opere “finite” che aveva pubblicato nel 2011. Allora poteva essere considerata
Sostakovic Suite su versi di Michelangelo Ottobre
baritono Matthias Goerne
direttore Mikko Franck
orchestra Philharmonique de Radio France
cd Alpha-Classics 1121
Forse il più bello dei tre grandi cicli vocali di Sostakovic, quello sugli stupendi,




