Brexit musicale?

Glyndebourne, Covent Garden, London Symphony erano (e sono) tutti per rimanere nella Ue. Cosa succederebbe infatti all'Inghilterra se dovesse rinunciare alla tradizione musicale europea?

glyndebourneIl 23 luglio nelle campagne dell’East Sussex inglese va in scena un’accattivante Béatrice et Bénédict di Berlioz: il regista, come il compositore, è francese, Laurent Pelly; il direttore italiano, Antonello Manacorda. La segue Sebastian F. Schwarz, nuovo direttore del Festival di Glyndebourne proveniente dall’an der Wien della capitale austriaca. È tedesco, ma la sua formazione è europea: compresi lunghi periodi lavorativi tra Milano e Venezia. Schwarz ha scritto una lunga lettera e l’ha postata su Facebook: la Brexit non esprime il contesto in cui operano la cultura e le arti. È l’opposto del vissuto di organizzatori, artisti e pubblico. L’autarchia, lo insegna anche la storia, in musica non può che fare male. Forse anche per questo i personaggi più rappresentativi delle istituzioni musicali inglesi, i due “sir” di casa alla London Symphony e alla Royal Opera House, Simon Rattle e Antonio Pappano, si sono dichiarati nettamente contrari. Sanno che l’esempio di cui sopra è un modello replicabile all’infinito. Al prossimo Festival di Edimburgo, dal 5 al 29 agosto, si mettono in scena tre produzioni operistiche: la Norma con Cecilia Bartoli prodotta dal Festival di Salisburgo; l’Oro del Reno diretto da Valery Gergiev proveniente dal Mariinsky di San Pietroburgo, il Così fan tutte allestito qualche settimana prima ad Aix-en-Provence. La casistica potrebbe continuare.  L’Inghilterra che ha lasciato l’Europa non ha un suo vero repertorio musicale. Le mancano autori di grosso calibro, di quelli che scrivono parole incise col fuoco nel libro della creatività musicale. Purcell e Britten non bastano a fare stagioni, né d’opera né sinfoniche. E se – per paradosso – gli inglesi dovessero fare a meno della civiltà musicale continentale i loro cartelloni, con i soli Elgar, Vaughan Williams e Delius, sarebbero decisamente deludenti. In cosa sono stati bravi gli inglesi? Nel valorizzare la musica altrui. Nel darle mezzi, strutture, organizzazione. Nel creare teatri e società filarmoniche, compagnie operistiche e grandi ensemble orchestrali, mecenatismo e impresa, editoria e discografia. In questo, sono i migliori al mondo. C’è stato un periodo dove il successo planetario veniva deciso oltre Manica: e valeva per i grandi, Handel e Haydn, così come per i “minori”, Clementi e Veracini e Johann Christian Bach. Oggi vale per interpreti, cantanti, ballerini, perfomer di ogni latitudine. Se c’è un posto dove la musica europea ha ricevuto amplificazione e visibilità questo è Londra. La Brexit, la sentenza sul valore della propria autonomia e insularità pronunciata dagli inglesi, è in contraddizione con la storia. Almeno con quella della musica.


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299 Aprile 2024
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