Die Soldaten da Salisburgo alla Scala

pubblichiamo la recensione dello spettacolo (visto a Salisburgo nel 2012) che debutta sabato a Milano

Stesso spettacolo, direttore, regista. Anche tra i cantanti molti sono gli stessi che c’erano a Salisburgo nel 2012 quando la produzione firmata da Alvis Hermanis dei Soldaten di Zimmermann, che da sabato 17 gennaio va in scena alla Scala, fu presentata per la prima volta. Ci sembra utile dunque riproporre la recensione pubblicata due anni fa sul numero 161 di “Classic Voice”: nonostante l’importanza della proposta la stampa italiana fu quasi del tutto assente. Anche se – è giusto precisarlo – alla Scala l’allestimento è stato sottoposto ad alcune modifiche sceniche e nella disposizione della gigantesca massa orchestrale, e dunque andrà valutato nella sua individualità

Salisburgo-Soldaten

SALISBURGO (agosto 2012) – La gestione di Salisburgo, affidata all’ex intendente dell’Opera di Zurigo Alexander Pereira, assesta un primo ragguardevole colpo portando in scena Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann, uno dei capolavori assoluti e poco eseguiti del teatro musicale del (secondo) Novecento. E lo dispone negli spazi immensi e orizzontali della Felsenreitschule, l’antica cavallerizza arcivescovile che è ormai da anni il più bel teatro del festival. L’operazione riesce, a giudicare dal gran pienone e dagli interminabili applausi della “prima”. È piaciuta a tutti, questa ambiziosa parabola nata dai traumi che l’esperienza della guerra e della vita militare procurò a Zimmermann così come al poeta e scrittore “Sturm und Drang” Jacob Lenz, dalla cui omonima pièce è scorciato il libretto. D’altra parte la scrittura musicale è ibrida: coniuga il serialismo diffuso fra i giovani compositori tedeschi tra gli anni Cinquanta e Sessanta con un irregolare gusto per il “collage” di citazioni, tra corali bachiani, Dies irae e improvisazioni da big band. E la drammaturgia avvince: pone al centro una Marie quasi berghiana (l’intensa Laura Aikin), incuriosita, poi avvinta, violentata e rovinata dal maschilismo dei militari. Si aggiunga che a Ingo Metzmacher non basta dominare una scrittura orchestrale divisa in tre ensemble dei Wiener, due dei quali “battenti” di percussioni alle estremità rialzate della buca; né seguire una schiera di venti interpreti i cui declamati s’inerpicano in vertiginose agilità quasi parlate che a volte confluiscono in colossali e trascendentali contrappunti (specialità in cui la veterana Gabriela Benackova dimostra di essere una virtuosa): no, Metzmacher cerca anche l’intenzione “espressionista”, la tensione continua ma trattenuta (più che gli accenti ironici e sarcastici). Insomma l’opera avvince perché possiede una prorompente teatralità. Non era necessaria dunque la regia di Alvis Hermanis per renderla ulteriormente digeribile, o più “carina”. Qui si ricrea una Cavallerizza in miniatura, dove tutto – destrieri e cavalieri, paglia e fieno – concorre a descrivere realisticamente un mondo più vicino a “Orgoglio e pregiudizio” che a Jacob Lenz, ma che ignora del tutto l’immaginazione metaforica e ossessiva dello stesso Zimmermann. Non solo l’ambigua, fragile e perversa personalità di Marie si perde nel quadro d’epoca e i pochi elementi simbolici risultano tanto belli quanto teatralmente inutili (le amazzoni che cavalcano dietro gli archi fittizi, come in un maneggio; le prime foto “pornografiche” ottocentesche), ma anche la peculiare “polifonia” di scene che Zimmermann aveva ideato è sacrificata per preservare la linearità da raccontino: come nel finale, dove manca la visionaria marcia dei soldati che avrebbe dovuto coesistere con la scena in cui Marie chiede l’elemosina ma non viene riconosciuta dal padre. Piccola chiosa: lo spettacolo è in coproduzione con la Scala e non si capisce: 1) che senso possa avere replicare l’antica Cavallerizza salisburghese al Piermarini 2) come adattare un elemento scenografico tutto proteso in orizzontale al grande palcoscenico di un teatro all’italiana.
Andrea Estero


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