Stella di Napoli

mezzosoprano Joyce DiDonato
direttore Riccardo Minasi
orchestra Opéra di Lione
cd Erato 463656

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Metter su un recital vocale, oggi, è cosa non poco diversa da quanto costumasse una ventina d’anni fa, quando le sale d’incisione sfornavano opere complete non si dice a pioggia, ma in numero cospicuo senz’altro sì. Oggi, il recital mantiene senz’altro la sua funzione diciamo così promozionale d’un artista: ma ne è cambiata l’immagine. Se l’artista è giovane, se ne mette in vetrina possibilità vocali e quindi di repertorio, rischiando anche la collana di brani che per essere famosi sono anche discograficamente inflazionatissimi, e quindi a forte rischio di boomerang per i troppi confronti possibili. Se è artista affermato, occorre ovviamente mettere in luce non tanto – o non solo – le bellurie vocali, ma la statura artistica: da commisurare, però, anche in questo caso non sui maggiori personaggi del repertorio ma favorendo discorsi culturalmente più intriganti nell’istituire rapporti, assonanze, indagini su territori poco o punto esplorati. Cecilia Bartoli, in questo, ha fatto scuola. E Joyce DiDonato pare ne abbia fatto tesoro, non ultimo badando alle foto di copertina.
Questo recital consente dunque non solo di avere conferma di quanto eccelsa sia la cantante: controllo superbo del fiato, poggiato e proiettato con tecnica eccellente che consente morbidezza e uguaglianza a tutta la linea vocale, con centri timbrati e solidi da cui scattare ad acuti squillanti e luminosissimi; legati magnifici su gettate non importa quanto ampie; variazioni continue alla dinamica (con “piani”, in particolare, straordinariamente ricchi d’armonici e privi d’alcuna sgradevole fissità) onde stendere sulla linea colori, accenti, chiaroscuri tutti di espressività contagiosa; coloratura brillante, sgranata e musicalissima. Tutte qualità che da tempo hanno collocato la DiDonato ai vertici della graduatoria vocale contemporanea, e che è un costante piacere ritrovare semmai incrementate in ognuno di questi brani.
L’impaginazione dei quali mi pare orientata a uno scopo molto interessante. Che non è quello di riscoprire chissà mai quale capolavoro ingiustamente dimenticato, bensì di tracciare una mappatura del gusto, del tipo d’espressività, del genere di teatro insomma, in auge nei palcoscenici italiani dell’Ottocento: e del loro evolvere sulla spinta delle tre figure maggiori prima dell’avvento di Verdi. Dunque Michele Carafa con “l’altra Lucia”. Dunque Mercadante con una Vestale che rilegge in chiave romantica la figura neoclassica creata da  Spontini. Dunque Carlo Valentini con un sonnambulo maschio. Dunque Giovanni Pacini, quello che scrisse una tale valanga di opere da riuscire a confrontarsi tanto con Rossini quanto con Verdi. A fronte, il senso plastico della parola che Bellini ha forgiato attraverso i suoi inconfondibili vortici melodici ascensionali ma anche con un declamato gravido di futuro (e cosa abbia significato la scena della tomba di Romeo, la DiDonato lo fa capire come mai s’era anche solo intuito). Il virtuosismo capace d’esprimere altra cosa da se stesso di Rossini (ah, se Pesaro avesse avuto lei, nella recente Zelmira…). Il senso tutto diverso che Donizetti ha impresso sia alla coloratura (Elisabetta a Kenilworth) sia all’antica melodia “lunga lunga lunga” di Bellini, che la DiDonato, riproponendo uno dei tasselli di cui si compone il colossale finale di Maria Stuarda, ne ricerca una connotazione diversa – più didascalica, se vogliamo, ma proprio per questo assai interessante – rispetto al video della recita al Met col quale aveva già offerto definizione perentoria della propria statura artistica. Giacché questo è il punto: artistico.
La vocalità moderna che, piaccia o non piaccia, è adesso orientata su moduli e accenti che non mettono più in primo piano la nota in quanto tale, con tutti i polverosi schemi e dunque classificazioni di cinquant’anni fa: fare le note è solo punto di partenza per raffigurazioni più complesse, sfumate, in una parola teatrali di quanto costumasse un tempo. Quando gli incasellanti non avrebbero saputo dove collocare bene questa voce (mezzosoprano? falcon? soprano corto, soprano lungo, mezzosoprano “sfogato”? che palle) e probabilmente sono gli stessi che oggi ancora istituiscono confronti coi defunti o i pensionati, non vedendo la magnifica realtà rappresentata – qui e ora, supportata per giunta da un’ottima direzione – da questa magnifica voce che a ciascuna sua comparsa riesce a dire qualcosa di nuovo e soprattutto che vale la pena ascoltare.
Elvio Giudici

 

 


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