Mendelssohn – Elias – recensione

Senza sconti né ammiccamenti, senza risparmio di forze e di lavoro per i musicisti, il Concerto di Natale della Scala cresce anno dopo anno, catalogando esecuzioni che meriterebbero (almeno) una replica e un po’ più di cortesia da parte di RaiUno. Sinistra l’idea di mandare in onda soltanto la registrazione della prima parte dell’Elias di Mendelssohn. Invece di un transito quasi ininterrotto di vecchi film babbonatalizi, il palinsesto della Vigilia di Natale avrebbe preso un altro peso proponendo integralmente l’oratorio. Sia per offrire al pubblico poco più di due ore di musica capace di conquistare al primo ascolto, sia per indicare una via al raccoglimento natalizio non meno intenso di quella evocata da altri racconti evangelici. Certo, il Dio del profeta non fa sconti ai nemici idolatri, e la musica di Mendelssohn ce lo dice attraverso pagine teatralissime e di avvincente corporatura sinfonico-descrittiva, ma i quadri angelici trasfigurati (anche dall’impiego delle voci bianche solistiche, quelle scelte del gruppo scaligero di Bruno Casoni) e gli squarci corali più meditativi riportano a una sorta di sublime atemporalità il senso del sacro che emana dal racconto biblico tagliato sul protagonismo di Elia. La celebrazione postbarocca interpretata da Mendelssohn, moderno patrocinante della scoperta della Matthäus Passion bachiana, riflette con pienezza la molteplice radice ideologico-spirituale della sua non lineare religiosità e degli stili musicali che nei secoli l’hanno resa vitale. Nell’Elias, più vissuto e vario dell’omologo Paulus, si avverte il gusto della rappresentazione e quello della speculazione spirituale, ma risultano fusi in un linguaggio che unisce le diverse derivazioni fondendole in retorica espressiva romantica e unitaria: meravigliosamente elegante, appassionata ma anche distaccata come un sermone in cui devozione e radiografia del testi biblici respirano appaiati. Almeno in questa esecuzione che Daniel Harding ha governato con quella naturalezza barocca che i musicisti inglesi hanno dentro quasi per istinto. Semplicità ma fervore, gesti vibranti ma senza ampollosità gratuite, scorrevolezza nella pagine spettacolari ma precisione nei dettagli. La lettura matura di Harding s’è sposata a meraviglia con la prestazione del coro scaligero (ancora merito a Casoni) e l’intenso protagonismo di Christian Gerhaher. Eccellente nelle ampie sezioni recitative, che Mendelssohn confeziona richiedendo flessuosità vocale piena e adesione reciproca con l’accompagnamento, ma dotato del peso giusto anche nei passaggi più cantabili. Qui la sua bravura s’è confrontata alla pari con il resto del prezioso quartetto di voci: Julia Kleiter, Sarah Connolly e Andrew Staples.
Angelo Foletto


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299 Aprile 2024
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