Monteverdi – L’incoronazione di Poppea

interpreti S. Yoncheva, M.E. Cencic, A. Hallenberg,
T. Mead, P. Whelan, A. Brahim-Djelloul, E. Gonzales Toro
direttore Emmanuelle Haïm
orchestra Le Concert d’Astrée
regia Jean-Francois Sivadier
regia video Philippe Béziat
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
2dvd Virgin 9289919

Monteverdi--incoronazione-p

Sivadier produce un déjà vu assai meno significativo, dunque banale, della sua Traviata di Aix. I cantanti entrano alla spicciolata sul palcoscenico del tutto vuoto fino al muro di fondo, mentre gli spettatori prendono posto in platea, poi piano piano “entrano” nello spettacolo ma con frequenti strizzate d’occhio tra loro e in platea, a sottolineare che sempre di recita teatrale si tratta: come ci ricorda anche il via vai di gente abbigliata da tecnici e – pure qui, come in Traviata, il succedersi di vaste tele piazzate di volta in volta in modo volutamente antirealistico a scandire le diverse tappe narrative (ma sul fondo, punto focale delle diverse prospettive, resta sempre visibile il trono imperiale), secondo la ben nota prassi semiologia del “dentro” e “fuori” dall’ambiguità connessa alla finzione teatrale. Con frequenti e a mio avviso regolarmente irritanti effetti di comico non involontario (ché anzi risulta evidente quanto lo si cerchi) bensì più prosaicamente di tanto più stupido in quanto affetto da eccesso di pensiero. Esempio preclaro l’introduzione al sublimissimo “Addio Roma”: Ottavia che avanza maestosa dal fondo mentre Nerone e Poppea si rotolano al proscenio, s’interrompono seccati, cercano di darsi una sistematina alle nudità, e infine Nerone se ne va con eccesso di mossettine stizzite che provocano un oceano di oltremodo inopportune risate. Visto mille volte, non se ne può più.
Costumi, luci e ambientazione oscillano tra Pizzi e film peplum formato chic. Dunque Poppea è lasciva perché ancheggia (quantunque lo faccia piuttosto bene, la Yoncheva è niente male). Nerone pare ispirarsi al Malcolm McDowell protagonista del Caligula di Tinto Brass: biondo platino perché mezzofolle e di sessualità ambigua, però Brass credo sarebbe riuscito assai meglio ad andare a fondo circa il significato teatrale del duetto con Lucano, dove il massimo dell’osé consiste nell’abbracciare e baciare una statua di marmo effigiante Poppea. Seneca ovviamente è immerso in una luce azzurrognola e si muove al rallentatore perché così fa tanto meditabondo. Frequenti le “uscite” dalla continuità teatrale, come quando Arnalta, nel mezzo della sua sublime tirata finale, fa ciao ciao, come va? a una comparsa che le passa davanti. Subito prima del duetto finale, sbuca fuori un attore che tra un sorso di vino e l’altro dal bicchiere che porta con nonchalance in mano, c’intrattiene sul triste futuro che attende sia Nerone sia Poppea, nonché delle vicende che concernono il dopo-Nerone: moderatamente utile dato che non serve necessariamente Svetonio ma basta Wikipedia, e teatralmente nullo.
A fronte di questo linguaggio molto volage (e moltissimo francese nella sua insistita distanziazione all’insegna d’uno scetticismo ironico che quasi sempre scade però in fatuità e quindi in inconsistenza teatrale proprio per voler mettercene troppa), Emmanuelle Haïm si scatena in una delle sue tipiche direzioni coloratissime, movimentatissime, animate da improvvisazioni quasi jazzistiche che terremotano di continuo la narrazione. Solo che, tale narrazione essendo assai poco solida, questo terremoto finisce col squassarla ancora di più: con esiti teatrali bizzarri e non sempre – anzi, assai raramente – convincenti, specie ricordando quanto ha saputo invece produrre in anglicana terra con Carsen.
Diversamente dalla scelta sopranile fatta a Glyndebourne, la Haïm opta  qui per un Nerone controtenore. Cencic è bravissimo come sempre, ma meno di sempre perché la parte non gli sta troppo comoda: la tessitura enfatizzandone un po’ troppo l’acidulo biancore timbrico, che nell’ambito d’una isteria accentuale resa grottesca dalla gestualità suggeritagli fa spesso scadere il personaggio in una sorta di macchietta, priva d’ogni pericolosità che invece mi pare dovrebbe essergli connaturata. Sonya Yoncheva è diventata una delle beniamine del pubblico francese: lo merita per la solidità d’un canto che valorizza la bellezza timbrica, anche in virtù d’un accento sempre vario e chiaroscurato, in aggiunta a una presenza fisica di tutto rispetto e doverosamente messa in valore dalla regia. Tim Mead ha fatto di Ottone il proprio cavallo di battaglia, e non si smentisce neppure qui, al pari dell’Arnalta strepitosa di Emiliano Gonzales Toro. La voce ampia e dagli scuri riverberi mezzosopranili di Ann Hallenberg è ideale per Ottavia, resa con un magnifico ventaglio d’accenti.
Elvio Giudici

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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