Mozart – Le nozze di Figaro

interpreti A. Schuen, M. Eriksmoen, C. Schafer, B. Skovhus, E. Kulman, I. Raimondi. P. Kalman
direttore Nikolaus Harnoncourt
orchestra Concentus Musicus Wien
arrangiamento scenico e regia video Felix Breisach
2 dvd Unitel 803708

 

Strana gente, i geni. Harnoncourt certamente lo è stato, ma sempre capace di suscitare profonda irritazione allorché nel teatro musicale proponeva direzioni che ti costringevano a rimettere in discussione parecchie certezze, ma facendoti subire lo scotto di cast nel migliore dei casi sbilenchi, e nel peggiore semplicemente criminali, a partire dal suo celebre Idomeneo che da una parte lo strumentale ti faceva toccare con mano cosa ha significato – per il passato e il futuro musicale – la rivoluzione mozartiana nell’ambito dell’opera seria, ma dall’altra le voci erano tutto un memento del rossiniano Mustafà col suo “cara, m’hai rotto il timpano”.
Nella tappa finale del suo lungo e costante percorso mozartiano (il ciclo Da Ponte al viennese An der Wien nel 2014), Harnoncourt mi pare la quintessenza dell’enigma.
All’inizio del Mozart con strumentale “storicamente informato” (lungo e proficuo, il cammino dagli “strumenti originali” – stonature comprese – a “strumenti moderni suonati all’antica”, fino a… Mozart che compone dopo Händel e prima di Beethoven e quindi va suonato “diverso” da Brahms), una delle caratteristiche più immediatamente evidenti erano le agogiche molto più spedite rispetto a quanto s’era adusi da direttori tipo Furtwängler. S’è imparato a riconoscere e apprezzare la nervosità, l’ambiguità sentimentale, il complessissimo gioco di rapporti psicologici, la profondissima dei personaggi mozartiani, riportati sull’altra e teatralmente molto più giusta faccia della luna rispetto ai sempre più insopportabili biscuits viennesi. E adesso? Una noia sesquipedale che li fa addirittura rimpiangere. Proprio non capisco cosa gli è preso. Perché i suoni restano “brutti” rispetto alle dorature di orchestre tipo Vienna o Dresda; ma agogiche che paiono anelare alla stasi cosmica; voci o brutte, o oltre la frutta (inascoltabili, la Contessa della Schäfer e il Conte di Skovhus, entrambi decotti), o ingiudicabili perché costrette a inesplicabili gimkane dinamiche che oltre a mettere alla frusta registro acuto e basso, qui deformano tutta la parte (il Cherubino di Elisabeth Kulman), là sono corrette ma evanescenti (la Susanna di Mari Eriksmoen letteralmente butta via l’immagine forse più sublime della sublime galleria mozartiana); qui sono magari discrete  timbricamente e discretamente emesse, ma guastate da dizione burgunda e totale assenza di carisma purchessia; là, abbiamo le voci dei personaggi di fianco che sono tutte brutte, sgraziate, cachinnanti: nell’ambito d’una direzione tutta pinzette acuminate che frantumano la continuità narrativa e quindi ogni possibilità teatrale alla ricerca del particolare più minuto da evidenziare, contemplare, mettere lì e passare all’altro. Tutto questo, per quanto mi concerne non è Mozart bensì la sua caricatura, schizzata da un pedante esegeta alla perenne ricerca del diverso costi quel che costi e chissene se uno dei geni più alti del teatro in quanto tale lo si riduce a un interessante sperimentatore di suoni.
Orrendo, e morta lì.
Elvio Giudici

 

 

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