Verdi – Un ballo in maschera

Verdi - Un ballo in maschera

interpreti M. Alvarez, V. Urmana, M. Vratogna, E. Zaremba, A. Marianelli
direttore Jesus Lopez-Cobos
orchestra teatro Real di Madrid
regia Mario Martone
regia video Angel Luis Ramirez
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
dvd Opus Arte 1017D

Per mettere in scena il grande e più consolidato repertorio, solo tre le vie possibili. Innovare radicalmente la drammaturgia, coi rischi del caso ma anche i relativi esiti geniali possibili. Reiterare l’uggioso decorativismo dei tableaux vivants: rischio zero, però anche zero teatro. Stare nella tradizione, ma sostituirne le vecchie carabattole di caccole e stereotipi con idee e suggestioni nuove.
Purtroppo, Martone sceglie la seconda: con solo uno spolvero di finta modernità nel togliere l’eccesso di decorativismo, ma senza metterci nulla a tappare il buco. Prim’atto nel più piatto anonimato, con la scena di Ulrica che sembra uno degli esterni di West Side Story coi suoi ballatoi di ferro e scaline, usati peraltro da quasi nessuno giacché stanno tutti lì a godersi lo spettacolo. Il secondo è bello da vedere anche se ricorda dappresso la scena di William Dudley nello spettacolo di Salisburgo con la regia di Schlesinger: un edificio in rovina – chiesa o caserma o stilizzazione riuscita di entrambe – al cui centro campeggia un’enorme croce-forca da dove pendono uncini sopra i quali verrà appeso da Tom il velo di Amelia, unico modesto frisson della serata che peraltro va perduto, giacché il regista televisivo l’inquadra di striscio solo dopo e in campo lungo, hai visto mai scandalizzi qualche anima pia. Bello da vedere, dicevo, ma nient’altro: cornice d’un quadro vuoto, tutti impegnati a reiterare gesti buoni per qualunque titolo che preveda almeno un “Giusto cielo quale ambascia”. Il terz’atto ha una sola idea che emerge dal nulla gestuale: Eri tu rivolto non al consueto e sempre parecchio imbarazzante ritratto, bensì a una statua funeraria di Riccardo che al primo atto avevamo visto allestire, quasi il fato si mettesse in marcia. L’ultimo quadro è un tantino imbarazzante (anche a prescindere dall’orrida decisione d’un Riccardo taglia forte che esala le sue ultime frasi seduto su una minuscola sediolina). Perché è bello, sì: ma lo specchio che si alza e s’inclina mostrando nella parte inferiore il sottopalco con un quartetto impegnato nella mazurka – che non si vede perché abbisogni d’un direttore – e nella superiore il riflesso dei movimenti sul palcoscenico, sarà magari un omaggio alla celeberrima Traviata di Svoboda, ma fa venire in mente quanto diceva il grande Romolo Valli, attenzione che troppi omaggi fanno un plagio.
Direzione nel più puro stile Lopez-Cobos: ron-ron drammatico svolto con precisione tanto puntigliosa quanto asettica (Gesù, cos’è la scena della lotteria!), che ovviamente non suggerisce un accento che uno, quelli che ci sono essendo frutto esclusivo di fantasia personale dei cantanti, non supportati da alcuna controparte strumentale. Vratogna sa sempre cosa dire, e di fatto lo dice (accompagnandolo con una recitazione di tanto più ragguardevole in quanto frutto d’iniziativa personale): però, parafrasando Tosca, “lo dice male”. Siamo oltre la canna del gas, si sa, quanto a baritoni adatti al grande repertorio verdiano e post: qui ci sarebbe del materiale, ma l’emissione va nel naso appena si deve smorzare in alto, altrimenti va nell’urlo; e sotto, l’apertura alla ricerca di volume e suono scuro produce i soliti disastri. Mi piace molto l’Oscar di Alessandra Marianelli: sa stare in scena (poveretta, quel “Di che fulgor” sopra una scala con un candeliere in mano!), evita ogni smanceria, la linea è bella e gli accenti vari e sempre espressivi. Un disastro l’Ulrica tutta di pancia, stimbrata e con frequenti scantonamenti nel parlato. Ma ci sono Riccardo e Amelia.
Non mi ricordo una Urmana altrettanto brava da quando ha deciso (giusto o sbagliato che sia) di diventare soprano: emissione appoggiatissima, col che i suoni sono legati e portati plasmando una linea solida, omogenea (stupendo, “Morrò, ma prima in grazia”), con acuti raggianti, centro robusto, affondi sotto al rigo tenuti saggiamente leggeri ma sempre ricchi di suono. E quantunque non sprizzi meraviglie, l’accento – nella sua marcata liricizzazione – è giusto e sempre partecipe: non recita, ma c’è da dire che in un ruolo del genere il far tutto da soli non è facile. Quando ha dietro un regista vero (McVicar e Vick per Rigoletto, ad esempio; o Serban per il Werther), Alvarez invece recitare saprebbe: qui, fa i soliti gesti estroversi consoni a un tenore che tenoreggia, e pazienza. Cantare, però, si può fare da soli: e Alvarez lo fa bene. C’è qualche involo all’acuto un tantino strozzato (aria dell’ultimo atto), ma anche belle sfumature, qua e là un po’ troppo messe in cornice (stessa aria) ma comunque appropriate ed espressive. C’è la prodezza – varata la prima volta da Domingo – del doppio salto discendente di tredicesima nella Ballata, scabrosissimo per l’intonazione che invece si mantiene perfetta. Ci sono legati più che ragguardevoli, nonché staccati fluidi e leggeri; in coppia con una granitica Urmana, regge le deliranti espansioni del second’atto come oggi non riesce a nessuno, nel quadro d’un personaggio più sulla linea Pavarotti che su quella Bergonzi, cioè a dire estroverso e accattivante. Un ottimo Riccardo, insomma.
Elvio Giudici


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299 Aprile 2024
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