Barenboim, maestro dell’Armonia

Il pianista argentino divenuto direttore compie 80 anni. Un ritratto di Gian Paolo Minardi
Daniel Barenboim compie 80 anni. E Le 4 Sinfonie di Schumann con la Staatskapelle Berlin sono la novità discografica con cui la Deutsche Grammophon lo festeggia. Incise nell’autunno del 2021 a Berlino, con l’orchestra di casa alla Staatsoper “Unter den Linden” berlinese, di cui Barenboim è direttore musicale, rappresentano il suo ultimo frutto discografico. 
Il maestro nel 2022 è stato colpito da una malattia vascolare infiammatoria: ha successivamente diretto un concerto al Festival di Salisburgo, lo scorso agosto, ma ha dovuto cancellare il Ring previsto proprio questo mese nel suo teatro. 

Al maestro, a cui dedichiamo il ritratto scritto da Gian Paolo Minardi, i nostri migliori auguri di compleanno e completa guarigione. Per festeggiarlo abbiamo deciso di regalare a tutti i nostri lettori un bellissimo album digitale che contiene le sue registrazioni delle Sonate di Beethoven "Patetica", "Al chiaro di Luna" e "Appassionata". Per scaricarlo clicca su questo link e segui le indicazioni.

Barenboim pianista e direttore, due terreni confinanti legati dal flusso osmotico di una visione unitaria che attiva una straordinaria complementarietà; ancor più che in Ashkenazy che pur i due ruoli di pianista e direttore ha svolto con sicura determinazione. Per non parlare di quei direttori che, nati pianisti hanno poi lasciato il campo per dedicarsi all’orchestra concedendosi talora qualche rara escursione nostalgica, come Bruno Walter o Georg Solti, e ancor più di quei solisti che dalla tastiera tengono controllata l’orchestra in un’ottica cameristica; caso a sé quello di Bernstein che toccava esiti esaltanti integrando la furia solistica con l’avvolgente respiro dell’inimitabile interprete.
Per Barenboim, che compie 80 anni in questi giorni mentre affronta la convalescenza da una malattia che negli ultimi mesi lo ha visibilmente indebolito, il discorso è altro, nascendo dal pianoforte per diramarsi attraverso percorsi ben più intrecciati, con quella sua qualità comunicativa che è fiorita da un talento pianistico fuor del comune consolidatosi e temperatosi attraverso la varietà di esperienze compiute dall’interprete; nessuna delle quali tuttavia sembra aver posto limiti, se non in termini di impegno pratico, alla figura del pianista, ma al contrario aver trasfuso ad essa certi tratti che rendono unico il suo discorso alla tastiera, quell’andamento flessibile del fraseggio, quel modo di vivere i contrasti dinamici, di sostenere il canto con suprema ariosità. Un vero e proprio scambio incrociato tra gli orizzonti più ampi svelati dall’orchestra e quel rapporto fisico col suono che manca al direttore “puro”. E proprio l’intrecciarsi di tante esperienze, quella direttoriale e teatrale, rende ancor più tangibile la peculiarità del pianismo di Barenboim, quella sua impagabile eloquenza; in particolare quella del rapporto con la vocalità che Barenboim ha sempre sentito come la vera matrice dell’espressione musicale, amando quindi il lavoro con i cantanti, non solo quello legato al Lied, ma quello più operativo, imposto dalle prove di un’opera, dove si affina la ricerca della musicalità intrinseca alle parole: “non è infatti sufficiente – diceva in un’intervista durante la preparazione di Parsifal – cantarle in modo corretto, ma occorre trovare il modo di rendere il significato della parola attraverso un mezzo squisitamente musicale”. Ci si sente così partecipi di quel suo Mozart così eloquente e così ricco di carattere, di quel suo Beethoven – l’Appassionata – plastico e conciso, affascinati da quella naturalezza che poi Barenboim va liberando con rinnovata felicità nel largo ventaglio dei bis dove le fragranze latinoamericane di Ginastera, Villa Lobos, Piazzolla si alternano agli incanti chopiniani, di Schubert, di Schumann; senza dire del non comune impegno con cui affronta i due primi quaderni di Iberia, le cui impervie difficoltà supera proprio con la ricchezza del respiro e con un’intelligenza musicale che ne riscatta nel modo più intenso il complesso travaglio della scrittura.

“Maestro scaligero”

Tanti i frammenti che si ricompongono nella mia memoria a darci la ricchezza del profilo, quelli soprattutto conservati durante il suo impegno milanese come “Maestro scaligero”. Tra questi ricordi mi piace ricordare, proprio come simbolo della duttilità di visione di Baremboin il recital  interamente centrato sulle suggestioni italiane di Liszt, con i tre sonetti petrarcheschi, la Sonata Dante, la prima delle due Leggende francescane  quindi tre delle parafrasi verdiane. Omaggio anche al teatro di cui Barenboim ha occupato un ruolo significativo. Una nuova occasione per ammirare il dominio della tastiera alla quale la densa attività direttoriale lascia ben pochi ritagli. E tuttavia proprio il rapporto tra questi due versanti appare determinante a rendere come necessaria, per chi come Barenboim nasce dal pianoforte, una naturale convivenza, perché come ha più volte affermato “quando si dirige, non si ha il contatto fisico con il suono che si ha invece suonando, cosa per me importantissima”. In effetti anche questa testimonianza lisztiana sembrava muoversi su una lunghezza d’onda che andava al di là del fatto puramente pianistico, prevalendo sensibilmente un tipo di respiro più ampio, di tipo sinfonico appunto, nel modo di articolare il fraseggio con una tipo di eloquio quasi parlante, come pure nella densità delle sonorità, nell’evidenza di certe dinamiche, come a dimostrare che “Wagner ha preso da Liszt almeno quanto gli ha dato, se non di più”. E pure un’altra connessione determinante è quella con l’esperienza teatrale, con la vocalità che Barenboim ha sempre sentito come la vera matrice dell’espressione musicale, amando quindi il lavoro con i cantanti, non solo quello legato al Lied – memorabile la sua collaborazione con Fischer-Dieskau – ma quello più operativo, imposto dalle prove di un’opera, dove si affina la ricerca della musicalità intrinseca alle parole, cercando di renderne il significato attraverso un mezzo squisitamente musicale”. Convinzione che diventava palpabile soprattutto nelle tre parafrasi verdiane, quella di Aida, Trovatore e la più celebre dal  Rigoletto, che Barenboim ha ricreato con una teatralità quasi gestuale, mai effettistica però, in omaggio alla quale sembrava perdonabile una certa rinuncia a quella eleganza che pure é inconfondibile quanto segreto tratto romantico della scrittura lisztiana.

La rivelazione di Wagner

Ricordo quel concerto proprio sul filo, non poco ambivalente, che lega Liszt a Wagner e si amplia verso il Barenboim direttore, verso il consistente impegno wagneriano svolto alla Scala. A quel Lohengrin con l’intrigante regia di Guth che appariva integrata entro il passo musicale che Barenboim attivava con prensile sensibilità, cogliendo le tante ricchezze e premonizioni, i fermenti romantici racchiusi in questa partitura – i rimandi weberiani ma pure le consonanze schumanniane – che si fanno tessuto organico, già elemento costitutivo di quella “melodia infinita” che irrorerà i futuri drammi musicali. E ancora a quel Ring previsto dalla Scala per l’anno wagneriano, avviato nel 2010 e nato dalla collaborazione di Barenboim e del regista olandese Guy Cassiers, in coproduzione con l’Opera di Stato di Berlino e il teatro di Antwerpen. Purtroppo Barenboim impedito da un infortunio non poté dirigere la giornata conclusiva, sostituito da Karl-Heins Steffens che gestì saggiamente l’eredità lasciata da Barenboim nelle precedenti giornate: il ricordo va a Walkiria dove si capiva come di fronte ad un impianto scenico tutto sommato innocuo era la musica a catturarci, a farci capire la drammaticità dell’arco che si consuma in questa “giornata”; un viaggio avvolgente guidato da un Barenboim calato come non mai nelle pieghe di questo grande racconto, con quel suo respiro sensibile con cui plasma il fluire del filo musicale, nelle più segrete sfrangiature polifoniche, vera “melodia infinita” nel modo con cui il direttore rendeva prensile la vita del  Leitmotiv, nel suo trasformarsi, nel suggerire l’indicibile, molto più acutamente di quanto non riuscisse l’immagine; e tutto ciò Barenboim lo faceva intendere all’orchestra. Memorabile rimane per me come Barenboim ha sublimato il senso di disfatta di Wotan nell’emozionante riscatto nel grande abbraccio del padre alla figlia. E infine quel Fidelio con cui Barenboim ha concluso la sua esperienza scaligera, un Barenboim fortemente coinvolto – anche se l’intendimento di eseguire la Leonora n. 2 anziché quella più stringata scelta poi come definitiva dallo stesso Beethoven è parso più frutto di una “curiosità” che non di una necessità drammaturgica, vanificata da quelli squilli di tromba – il direttore ha voluto provenissero dall’altro dei loggioni – che ti fanno già capire come la storia andrà a finire. In realtà l’impegno di Barenboim, è risultato ben riconoscibile nel modo con cui ha fatto respirare l’orchestra, con quei fiati lunghi e quegli allarmati silenzi, quei trasalimenti dinamici, facendone uno strumento sensibile alle accensioni estreme, fino all’asprezza ma pure tramite nell’affettuosità della pronuncia di quella dimensione sentimentale che in Beethoven è considerazione trepida e fiduciosa verso l’umanità; intimismo umanistico che è affiorato dal quartetto del primo atto, momento emozionante nel rivelare come il passo disinvolto del  Singspiel, con le schermaglie amorose tra Marzelline e Jaquino, celasse ben più devastanti turbamenti.
Vi è una testimonianza di Dean Chevenger, mitico corno della Chicago Symphony, che sintetizza i caratteri dei direttori che hanno operato in quella famosa compagine: Solti “ritmico”, Barenboim “armonico”, Muti “melodico”. In quell’”armonico” possiamo cogliere l’essenza dell’arte di Barenboim il quale confessava che “la cosa più importante e la più difficile mi sembrava essere – sia per un direttore che per uno strumentista – la capacità delle congiunzioni e delle transizioni. Come fraseggiare un tema rispetto a quello che lo precede e a quello che segue… elementi appena percepibili che si rivelano determinanti: sfumature di volumi, d’intensità e di tempo”.

Barenboim da piccolo

Parole che ci riportano  alle origini della sua formazione, pensando all’incontro importante, oltre a quello con Rubinstein, avuto nel 1952 con Furtwaengler il quale, cogliendo subito la genialità del ragazzo lo invitò a Berlino a suonare con i suoi Filarmonici; invito tuttavia che i genitori, entrambi pianisti, non ritennero opportuno accettare; “erano passati pochi anni dalla fine della guerra – ricorderà poi Barenboim – e per una famiglia ebrea come la nostra, che si era trasferita dall’Argentina in Israele innanzitutto per dare la possibilità ai figli di crescere in un paese proprio, recarsi in Germania sarebbe stato estremamente duro”. Nel 1954 il piccolo Daniel venne invece iscritto dai genitori ai corsi estivi di Salisburgo dove poté frequentare i corsi di Markevich, perfezionandosi in seguito con Nadia Boulanger. La “lezione” di Furtwaengler, appunto, presenza che costituisce la matrice di quel processo che l’oggi ottantenne musicista è andato svolgendo con infaticabile tensione e energia: come pianista e come direttore. Il che mi porta a ricordare un altro grande, purtroppo oggi dimenticato, Carlo Zecchi,  anche lui straordinario pianista e fervido direttore che nei corsi tenuti alla Chigiana ebbe come allievi Claudio Abbado, Zubin Mehta, Daniel Barenboim che insieme hanno voluto significativamente ricordare il maestro in occasione del centenario della nascita: “Ciò che colpiva maggiormente della sua personalità musicale – ha detto Barenboim – era la sintesi della sensibilità latina con un rigore e comprensione teutonica della musica”.

Gian Paolo Minardi

 

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