Donizetti – La Favorite

A Bergamo il titolo donizettiano in un'edizione esemplare per direzione e cast
interpreti A. Stroppa, J. Camerana, F. Sempey, E. Stavinsky, C. Di Tonno
direttore Riccardo Frizza
regia Valentina Carrasco
teatro Donizetti

 

BERGAMO – Macché La Favorita. L’opera che siamo abituati a sentire in italiano è diversa dall’originale che Donizetti scrisse per il parigino Opéra. “Menzognera” la definisce Paolo Fabbri, direttore scientifico della Fondazione Donizetti. Nella versione italiana, “di tradizione”, cambia perfino la trama, annacquata e senza mordente. La conferma arriva dal Festival Donizetti che come titolo di punta di quest’anno ha sfoderato una bellissima edizione della Favorite, con la “e” finale: in francese, integrale, coi balletti, in edizione critica. Che convince a chiudere il vecchio spartito nel baule delle anticaglie.

Il titolo, risentito così, merita di entrare di nuovo in repertorio. Prodigio di quel Donizetti che a Parigi era uno dei compositori più noti ed eseguiti, ripagato dall’invidia dei colleghi d’oltralpe: non stupisce che nell’anno del debutto (1840) raggiunse 32 esecuzioni e fu rappresentata all’Opéra ogni anno fino al 1893. Esito prodigioso se si pensa che La Favorite deriva da due progetti abortiti, un’opera italiana, un opéra de genre semiseria (L’Ange de Nisida: mai andata in scena, ma che Bergamo ha ricostruito e ci ha fatto sentire nel 2019), per poi approdare al palcoscenico più elevato, nobile, aulico dell’Académie Royale de Musique. Da questa metamorfosi deriva la sua ragion d’essere, la sua identità. Che Donizetti mette a fuoco con decisive sterzate: la una scrittura a cinque parti, più polifonica e “decorativa”; e una concezione teatrale più vasta, architettonica, edificata su una punteggiatura ritmica rossiniana (il Rossini di Guillaume Tell). Perfetta da questo punto di vista la direzione di Riccardo Frizza, che negli anni di permanenza a Bergamo come direttore musicale ha affinato la sua sintonia stilistica e “critica”: suono asciutto, nervoso, crepitante ma non ridondante; musicalità sopraffina, senza eccessi agogici strappapplausi; senso del costruirsi della forma e del suo articolarsi intorno a tableaux che “spiegano” la drammaturgia con un solo colpo d’occhio. Donizetti, che sapeva sedurre i francesi senza tradirne le aspettative, attua un compromesso: adatta le forme italiane al loro gusto, le interrompe e piega al principio della verità e della declamazione; ma non le abbandona, e sa quando scrivere una bella melodia o piazzare una trascinante cabaletta, magari più lenta e meno “gaia”. La direzione di Frizza traduce al meglio questa sagace ambiguità, senza sconti e senza indulgenze: concedendo alla dimensione belcantistica ciò che le spetta fino al punto di non-rottura. E l’orchestra del Donizetti Opera lo segue nelle tante finezze solistiche e prodezze strumentali, così come il Coro Donizetti e dell’Accademia della Scala. Certo, Frizza dispone di un dream team vocale: con il fuoriclasse Javier Camarena, Fernand, che incarna alla perfezione il tenore francese chiaro, squillante, acuto, sensuale, con acuti argentei, da capogiro. Più efficace nelle arie che nei recitativi. Al contrario di Annalisa Stroppa, Léonor più cantattrice che fraseggiatrice, eppure svettante nei concertati come un vessillo sopra gli imponenti bastioni di coro e orchestra. Il Balthazar di Evegeny Stavinsky è una colonna di fiato ben piazzata, irremovibile come il padre Censore che rappresenta. Una vera sorpresa per proprietà di accento e qualità vocale il baritono Florian Sempey, Alphonse XI, re che ama “la favorite” al punto da meditare il divorzio e rischiare la scomunica papale, il personaggio più intrigante e sfaccettato.

Valentina Carrasco lo rende come un capriccioso e dinoccolato dandy, nell’ambito di uno spettacolo più costruito che “agito”. Al centro della scena, nello stesso centro geometrico, si avvicendano una penitenziale Madonna e il lettone dove si consumano i vizi regali: a chiarire la matrice perbenista e bacchettona, tutta ottocentesca, da cui origina la condanna della Favorita. Mentre ai lati un’architettura di altari nasconde sotto i teli i letti delle favorite del re. E qui il colpo d’ala: nel balletto prendono vita le passate concubine, in una pantomima affidata ad attempate donne bergamasche, arrugginite dall’attesa di una chiamata a corte che non è mai arrivata. Il divertissement fa sorridere amaro, dice di secolari soprusi, parla alla sensibilità di oggi.

Andrea Estero

 

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