Boris, la Scala di fronte alla Russia

Il massimo studioso di letteratura e cultura slava introduce all'inaugurazione scaligera
In occasione della "prima" della Scala ("Boris Godunov" di Musorgskij con la direzione di Riccardo Chailly, la regia di Kasper Holten e Ildar Adbrazakov nella parte del progaonista, in scena dal 7 al 29 dicembre) abbiamo chiesto a Paolo Nori di tracciare un itinerario tra storia, letteratura e musica su Boris Godunov. Paolo Nori, classe 1963, è uno dei massimi studiosi, traduttori e scrittori di letteratura e cultura russa.

 

Non so niente di musica, e so poco di tutto, e sono anche abbastanza impreciso, ma quando mi hanno chiesto di scriver qualcosa sul Boris Godunov sono stato contento.

Cavallo
Il Boris Godunov, la tragedia di Puškin, pur essendo un’opera teatrale in versi (giambi liberi di cinque piedi), è forse un po’ l’inizio della letteratura russa dell’Ottocento intesa come narrativa. I grandi romanzi russi dell’Ottocento si può dire forse che vengano da lì, dal Boris Godunov. Puškin scrive il Boris tra il 1824 e il 1825, dopo aver letto i tomi X e XI della Storia dello stato russo di Karamzin; la differenza tra la prosa storica di Karamzin, che lo incanta, e la sua prosa letteraria, che lo disgusta, muove  Puškin a delle considerazioni sulla narodnost’ (spirito popolare) della lingua letteraria, che lo portano a scrivere prima la sua tragedia, poi una serie di opere in prosa (I racconti di Belkin, La donna di picche, La figlia del capitano) senza le quali, forse (certe cose non si possono dire con sicurezza) i grandi romanzi russi dell’Ottocento non ci sarebbero stati. Perché, anche se può sembrare strano, non c’era lo strumento per scriverli. Non c’era la lingua. Nel 1822, in un appunto intitolato “Sullo stile”, Puškin scriveva: “Una volta D’alembert disse: ‘Non venite ad elogiarmi Buffon, una persona che scrive: ‘La più nobile tra tutte le acquisizioni umane fu questo animale superbo, focoso, ecc…’. Perché non dire semplicemente ‘cavallo’?. E cosa dire dei nostri scrittori che, ritenendo cosa meschina lo spiegare con semplicità le cose più normali, pensano di ravvivare una prosa infantile con aggiunte e logore metafore? Costoro non diranno mai ‘amicizia’ senza aggiungere ‘codesto sentimento sacro, la cui nobile fiamma ecc…’. Bisogna dire: ‘la mattina presto’ e loro scrivono ‘non appena i primi raggi del sole che sorgeva rischiararono le contrade orientali dell’azzurro cielo’. Ah, che novità, che freschezza! È forse meglio perché è più lungo? Leggo la recensione di un amatore del teatro: ‘Questa giovane allieva di Talia e Melpomene, generosamente dotata da Apollo’. Dio mio! Ma scrivi: ‘Questa brava giovane attrice’. Precisione e concisione, ecco le prime qualità della prosa. Essa esige idee e idee, senza di esse le espressioni brillanti non servono a nulla. Domanda: quale è la prosa migliore della nostra letteratura? Risposta: quella di Karamzin. Il che non è un gran complimento”. Nel 1824 Puškin torna sull’argomento: “La nostra prosa è ancora così poco elaborata che perfino nella semplice corrispondenza siamo costretti a creare delle circonlocuzioni per i concetti più comuni”.

Due storie
Il bilinguismo nel quale vivevano i nostri genitori e i nostri nonni, la cui lingua madre era il dialetto, ma che quando scrivevano dovevano usar l’italiano, la lingua di quelli che avevano studiato, sembra il ribaltamento del bilinguismo nel quale vivevano Puškin e i suoi contemporanei che appartenevano alla sua stessa classe sociale. Questi conoscevano benissimo il francese, che era praticamente la lingua di corte, ma quando scrivevano dovevano scrivere in una lingua che era la lingua di quelli che avevano studiato e che aveva pochissimi precedenti letterari, in prosa, e finivano per imitare la prosa francese anche nelle strutture. Notare anche il fatto che il russo, diversamente dall’italiano, è prima una lingua parlata (fino al nono secolo gli slavi non hanno neanche l’alfabeto) poi scritta, mentre l’italiano, per la maggior parte dei nostri genitori e nonni, è stata prima una lingua scritta, poi una lingua parlata.

Narodnost’
Nel periodo in cui scrive il Boris, Puškin lavora ad alcuni articoli dedicati alla narodnost’ (spirito popolare) in letteratura. “La narodnost’ in uno scrittore è quella dignità che può essere apprezzata in pieno solo dai suoi compatrioti. Per gli altri essa non esiste e può apparire come un difetto”.

Il popolo
Buona parte dei commentatori del Boris Godunov mettono in evidenza il fatto che il vero protagonista della tragedia non è Boris Godunov, e neanche Grigorij Otrep’ev, il falso Dimitrij. È il popolo. E il popolo, nel Borìs di Puškin, ad andare a guardare, è un protagonista molto singolare.

 

 

Non complanarità
C’è una teoria che dice che in Russia vivevano come due popoli non complanari. Cioè era come se in Russia c’erano quelli che in qualche modo avevan dei rapporti con la corte, cioè nobili, ministri, governatori, ufficiali, funzionari, generali, sottufficiali, scrivani, mastri di poste, impiegati, che vivevano su un piano, e poi c’era il popolo, o popolino, o popolaccio, che viveva su un altro piano, e questi due piani non si toccavano mai. Ancora agli inizi del Novecento padre Pavel Florenskij si rivolge a un contadino e gli chiede come mai, secondo lui, il mondo sta in piedi. E il contadino lo guarda e gli chiede: “Ma come? Non lo sa?”. “No, non lo so”, gli risponde Florenskij. “C’è il pesce. C’è il pesce sotto che lo tiene su”, gli dice il contadino. E poi lo guarda scuotendo la testa, come per dire cosa studiano tanto a fare. “Alla metà del XIX secolo – scrive Francesco Benvenuti in Storia della Russia contemporanea – la vastità del territorio, le diversità etnico-culturali e quelle socio-culturali della popolazione dell’Impero russo avevano prodotto uno Stato e una società con caratteristiche uniche nel quadro della storia europea. Esistevano due Russie: una statale e proprietaria, colta e privilegiata; e la seconda Russia, popolare, multiculturale ed economicamente soggetta alla prima. Solo la Russia ufficiale rappresentava un’entità politica unitaria, la classe imperiale. La seconda, invece, frammentata in una miriade di società naturali locali, rappresentava piuttosto un non-Stato. Prima delle riforme civili progressive del 1861-1864 – la tragedia di Puškin è del 1825 – le due Russie non erano storicamente complanari, non appartenevano a una medesima dimensione”.

Cipolle
Nella tragedia di Puškin, il 20 febbraio 1598, sulla piazza rossa si sente un gran baccano. Cos’è questo baccano? dice uno. Ascolta, cosa significa questo baccano? La gente urla, cadono tutti come onde, una fila dopo l’altra. Uno dice “Fratello, tocca a noi adesso! Presto, in ginocchio”. Uno, sentendo delle urla e dei pianti chiede sottovoce: “Per cosa piangono?” Un altro risponde “Noi cosa ne sappiamo? I boiari lo sanno, loro non sono come noi”. Una donna, con un bambino in braccio, gli si rivolge dicendogli: “Allora? Cosa fai? Quando deve piangere si calma. Adesso vedi! Ecco l’orco, piangi, birbante!” Appoggia malamente il bambino per terra e lui si mette a piangere. “Finalmente!” dice la donna. Uno dice: “Piangono tutti? Piangiamo anche noi, fratello”. L’altro risponde: “Io ci provo, ma non ci riesco”. Il primo dice: “Nemmeno io. Hai della cipolla per fregarci gli occhi? No, non lo farò con la saliva”.

Un unico piano
Da un certo momento in poi, in Russia, c’è stato un movimento per avvicinare questi due piani che non si toccavano, movimento che è arrivato a compimento con la rivoluzione, quando le carte si sono mischiate, e la parte di russi che faceva una vita indipendente dal potere, una vita che si reggeva sul pesce, ha preso il potere (“La seconda Russia spazzò via la Russia ufficiale”, dice ancora Benvenuti). Questo movimento arrivato a compimento con la rivoluzione era cominciato prima.
Nel 1874, anno della prima del Boris Godunov, quello di Musorgskij, alcune migliaia di studenti e di aristocratici pentiti, vestiti da contadini e istruiti per fare i maestri, le levatrici, gli agronomi e gli agitatori, partirono in pellegrinaggio verso le campagne per diventare, secondo le loro intenzioni, tutt’uno col popolo. In genere, gli abitanti dei villaggi il accolsero con sospetto e con diffidenza. Il regimi finì con l’allarmarsi. Con l’aiuto dei contadini, furono arrestati duemila populisti, con seguito di processi di massa.

Il mugìk
In una lettera a Stasov, Filerete Musorgskij scrive: “Mio fratello Modest, nei suoi anni di infanzia e di giovinezza, come nell’età matura, provò sempre per il nostro popolo una particolare simpatia.
Egli credeva che il mugìk, il contadino russo, fosse un uomo”.

Il popolo piange
Nel Boris Godunov, quello di Musorgskij, all’inizio il popolo non si mette in ginocchio perché è consapevole del proprio ruolo, come se recitasse la sua parte. Si mette in ginocchio perché glielo ordina un ufficiale di polizia. E alla fine, cambiamento sottolineato da molti commentatori, il popolo che in Puškin alla fine tace, in Musorgskij piange.

La fine di Puškin
Nella versione originale della tragedia di Puškin, alla fine il boiaro Mosal’skij si rivolge al popolo, che ha appena saputo della salita al trono di Dmitrij, l’usurpatore, e della morte del figlio di Boris Godunov, Feodor, e di sua madre, Maria Godunova. Lo fa in questo modo: “Perché tacete? Gridate: Viva lo Zar Dmitrij Ivanovic!”. E il popolo grida: “Viva lo zar Dmitrij Ivanovic!”. Come a teatro, come a recitare la parte suggerita dal suggeritore. Più tardi, nel 1830, quando prepara il testo per la pubblicazione (la prima versione non aveva ottenuto il visto dalla censura), Puškin fa un piccolo cambiamento. Dopo l’incitazione di Mosal’skij, il popolo tace. Così finisce la tragedia di Puškin, con uno sciopero delle maestranze.

La fine di Musorgskij
Il Boris Godunov, quello di Musorgskij, finisce con i monaci e il popolo che, entusiasti, seguono al Cremlino Dmitrij l’usurpatore. Resta in scena solo jurodivij, reso, a seconda della traduzione, come pazzo in Cristo, scimunito, innocente, mentecatto, imbecille, chiaroveggente, scemo dalla nascita, matto, il quale canta “Sgorgate, lacrime amare! Piangi, piangi, anima pura! Verrà presto il nemico, monteranno le tenebre, la notte chiusa e fosca. Sventura, sventura alla Russia! Piangi, piangi, popolo russo, popolo affamato”.

La fretta
A voler tirare delle conclusioni, affrettate e parziali, senz’altro, vien da dire che nell’opera di Musorgskij si è incrinata quella non complanarità che è la superficie geometrica della tragedia di  Puškin. Vien da dire che Musorgskij (che intorno al 1863 era andato ad abitare con dei suoi amici in un appartamento che loro chiamavano “La comune”, pare l’avessero fatto per seguire la teorie del vivere in comune predicata nel celebre romanzo Che fare? Di Cernyševskij) pensasse che era vicino il momento in cui il popolo avrebbe pensato che le sue sofferenze non venivano dal cielo, né dal pesce, ma dai suggeritori, e dagli altri, da quelli che interpretano i ruoli principali.

Paolo Nori

 

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