L’altra faccia del Capodanno

A Berlino due concerti "anti" viennesi chiudono e aprono l'anno con Petrenko e il ritorno di Barenboim

Parto senza computer. Penso: tanto vado per riposare un paio di giorni e in programma ci sono solo due concerti di tradizione sui quali non occorrerà scrivere, il cosiddetto “Silvesterkonzert” dei Berliner Philharmoniker e quello di Capodanno della Staatskapelle Berlin. A Berlino ci sono però, diversamente dalla tradizione, 16 gradi e somigliamo tutti, berlinesi compresi, a Totò e Peppino imbacuccati a Milano; la città accoglie i visitatori divisa tra l’entusiasmo collettivo per una fine dell’anno colla stessa temperatura delle Baleari e della Sicilia e l’imbarazzo altrettanto collettivo del sapere che in realtà siamo in inverno e siamo quasi sul Baltico. Questa città stupisce sempre perché, come New York e Londra, non smette mai di reagire ai cambiamenti che spesso altrove vengono invece subiti, offrendo stavolta, musicalmente, una risposta al riscaldamento della crosta terrestre con due concerti rivelatisi tutt’altro che tradizionali, capaci di raggelare le migliaia di presenti, per lo più tedeschi (con quel poco che ormai significa questo aggettivo in un contesto interamente multietnico). Salutare doccia fredda n. 1: il “Silvesterkonzert” diretto da Kirill Petrenko con Jonas Kaufmann come artista ospite prevede quasi soltanto brani cupi o tragici, oppure violenti. Si apre infatti con la “Sinfonia” della Forza del destino seguita dalla scena “La vita è inferno all’infelice… Oh, tu che in seno agli angeli”, capolavori di orchestrazione resi come tali e con dettaglio pari solo alla tensione nervosa e muscolare che Petrenko ottiene dai suoi; la scena cantata da Kaufmann avvolge poi il pubblico fra le brume di una notte nebbiosa e malinconica – atmosfera creata dal clarinetto nella quale il celebre tenore si muove con agio e sicurezza, anche perché i colori del sole tende sempre più a mascherarli o ad aggirarli. Dopo “Giulietta! Son io!” di Zandonai, arriva violentissimo fino al masochismo il frammento della “Morte di Tebaldo” dal Romeo e Giulietta di Prokof’ev, che stordisce l’uditorio prima di due pagine di Giordano e Mascagni prosciugate da qualsiasi sentimentalismo. La presenza di tre composizioni filmiche di Nino Rota (due estratti dalla Strada e, come bis insieme al tenore, la canzone “Parla più piano” da The Godfather) aiuta a storicizzare e canonizzare il compositore di Fellini e Coppola ed è funzionale al dialogo Italia-Russia sul quale è impostata tutta la serata, conclusa col Capriccio italien di Ciajkovskij: esibizione di finezza timbrica e virtuosismo nella concertazione e negli assolo. L’Italia – siamo all’ultimo dell’anno – è una presenza comprensibile secondo lo stereotipo del Belpaese e l’imperativo invito a divertirsi (dappertutto in città c’è qualcuno che ti incita: “viele spass!”). Ma c’è anche la Russia, per ricordare, prima del brindisi che a pochi chilometri si muore per colpa di due oligarchi ai quali lo champagne non mancherà, come non mancheranno le lacrime alle madri, alle mogli e alle sorelle dei soldati, alla martoriata e vilipesa cittadinanza ucraina. Dopo un secondo agile bis (la Tarantella dalla suite Ovod di Sostakovic, ancora una volta musica da film), fuori dalla Philharmonie impazzano già in prima serata i fuochi d’artificio, che durano fino a notte fonda con dispendio e partecipazione tali da far impallidire Napoli. Al primo sorgere del sole del 2023, la città appare deserta e ricoperta da una coltre non di neve ma di giochi pirici ormai esausti; alle persone importa solo riversarsi nei giardini a godere l’epocale parentesi di caldo. Però alle tre e mezza la Staatsoper è già gremita – ancora una volta di pubblico che diresti “del posto” ma più giovane di quello del giorno prima – in attesa che Daniel Barenboim diriga “Die Neunte”, la Nona di Beethoven.

Salutare doccia fredda n. 2: il concerto è atteso per le 16 ma il direttore non esce se non dopo 16 interminabili minuti e un annuncio del sovrintendente; dopodiché finalmente appare in palcoscenico un omino gracile, diafano, malfermo, che raggiunge il podio come fosse una cima himalayana. Da lì, la vecchia aquila inizia a sorvolare la partitura (a memoria naturalmente) planando su di essa con tale lentezza da risultare in alcuni momenti frustrante per chi ascolta – II e III movimento – e faticosissima per chi suona e canta – il II e il IV. Eppure anche in questa forzata lentezza, quel musicista che poco prima sembrava in fin di vita trova una qualche linfa vitale: dirige infatti come se fosse il suo ultimo concerto e, nel dirigere, sembra volersi trattenere il più a lungo insieme alla musica (la cui forma e il cui stile restano, per l’occasione e per lo stato di salute, in secondo piano) e a noi, perché fintanto che la musica gli fluirà dalle dita e dalla bacchetta e fintanto che ci sarà un pubblico a volergli bene, lui riuscirà a fugare la morte. L’orchestra fa sforzi immani per stargli dietro ma li sopporta con abnegazione e amore filiale (gli annali contano più di cinquanta esecuzioni del pezzo in trent’anni di collaborazione). Fra i solisti vocali, il più coinvolto emotivamente è René Pape, veterano e partner abituale di Barenboim in questo brano, che avverte a sua volta di abitare un pianeta diverso e più afoso rispetto a quello sul quale è nato (lo affiancano anche Camilla Nylund, Marina Prudenskaya e Saimir Pirgu). Quasi 90 minuti dopo, la Sinfonia finisce con un inno alla gioia raramente così trattenuto nella “gioia”, lasciando il pubblico plaudente per altri 15 minuti e quattro sofferte uscite sul proscenio. Esperienza poco beethoveniana ma molto umana, o forse ancor più beethoveniana proprio perché così fragilmente umana. Fuori dal teatro, la vita va avanti nella frenesia di smontare gli addobbi: c’è chi continua a crogiolarsi al calduccio della musica tradizionale e di routine, rimandando a domani lo tsunami che spazzerà via il conformismo rassicurante (vedi altre celebri piazze musicali nelle stesse ore), ma c’è anche chi resiste e chi si oppone, ci sono ancora interpreti-iceberg sui quali infrangere quel che resta della musica classica come “bene rifugio” della piccola borghesia, facendone “bene comune” strumento di analisi della società.

Carlo Fiore

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