Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio

interpreti C. Zavalloni, S. Khan, H. Ataa, E. Birgé
orchestre di Piazza Vittorio, Giovanile dell’Opera di Roma
pianoforte e direttore Leandro Piccioni
regia Mario Tronco
elaborazioni e arrangiamenti Leandro Piccioni e Mario Tronco
coreografia Giorgio Rossi 
Terme di Caracalla
“Qualcosa di analogo alle operazioni di Uri Caine, col klezmer e il jazz, partendo da Mahler e Bach. Ma Piazza Vittorio è più radicale”

 

carmen vittorioROMA – Questa Carmen secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio viene da Saint-Étienne, in Francia, dove ha conseguito, nell’estate del 2012, un successo trionfale. Lo spettacolo è stato prodotto dall’Opéra Théâtre de Saint-Étienne insieme a Les Nuits de Fourvère/Départements du Rhône. A Caracalla il Teatro dell’Opera di Roma lo rappresenta per una sola sera, e non ha voluto investire un solo euro nell’allestimento, offrendo di fatto il solo palcoscenico. Abbiamo così tanta paura del teatro moderno, quando tocca il melodramma così come lo intendiamo noi, intoccabile, immutabile? E pensare che l’idea, invece, nasce proprio a Roma, e che l’Orchestra di Piazza Vittorio è una realtà romana. Nemmeno il precedente, e bellissimo, Flauto Magico, è riuscito a modificare la concezione tradizionalista del teatro d’opera romano. Spettacolo bellissimo, questa Carmen, e commovente, anzi addirittura straziante. Si viene proiettati in una sorta di mondo permanente delle idee della storia: il viaggio degli zingari dall’India all’Europa è un pretesto. I migranti del mondo sono molti di più, da quando comincia la storia, anzi perfino dalle origini dell’affermarsi dell’homo sapiens sulla terra, perché, come tutti ormai sanno, la nostra specie (la Lega si dia pace) nacque in Africa. E allora assistere a questa Carmen è uno scendere alle radici della tradizione gitana, anzi alle origini del canto nel mondo, adoperando canti e danze della musica cosiddetta colta, (come se l’altra fosse ignorante), in questo caso Bizet. Qualcosa di analogo alle operazioni di Uri Caine, col klezmer e il jazz, partendo da Mahler e Bach. Ma Piazza Vittorio è più radicale. E vi si concentra, come s’è detto, la musica del mondo, dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa. La vicenda della zingara uccisa da un soldato ha così un impatto immediato, violento: è un femminicidio come tanti, la secolare, anzi millenaria prevaricazione dell’uomo sulla donna. La sindrome di Baudelaire, che scrive, quasi un secolo e mezzo fa: “L’amore può nascere da un sentimento nobile, il gusto della prostituzione, ma è presto corrotto dal gusto della proprietà”. Sic, nelle Fusées, dal Mio cuore messo a nudo. I ritmi, la musica, che si ascoltano cantare e danzare sulla scena, sono quelli della vita quotidiana del mondo. Come il dolore quotidiano delle donne del mondo. Via tutta l’enfasi, via quella patina invecchiata e sublime che ha finito per travisare la storia di Carmen, in molte, troppe rappresentazioni paludate, quelle che gran parte del pubblico italiano vorrebbe ancora così. Qui, Carmen è una zingara qualunque, di quelle che puoi incontrare per strada. E Cristina Zavalloni offre a questa povera, disperata donna quotidiana, tutta la sua intensa arte del canto e della recitazione. Una zingara dolcissima e fragilissima. Ma tutta la compagnia, i musicisti, i danzatori sono perfetti. Bravissimo il Don José ventenne Sanjay Khan del Rajasthan e affascinante la Micaëla di Elsa Birgé, sembra una Charlotte Gainsbourg che canti una canzone di Jacques Brel, e inimitabile appare alla fine, ai saluti, il suo “The man I love”. Successo trionfale, anche a Roma. Peccato, però, la cattiva amplificazione.

Dino Villatico

 

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