Maestri d’Italia

Gatti, Chailly, Muti. Un confronto dopo tre importanti concerti italiani

Gatti e Chailly, Chailly e Gatti. Nella vita musicale italiana c’è un ritornello che sembra riproporre altri più antichi dualismi. A ragion veduta, al di là delle ragioni di polemica spicciola? Sì. E non è una questione di qualità esecutiva, ma di prospettiva d’interprete. Lo hanno dimostrato gli ultimi concerti che hanno visto i due direttori impegnati con la Filarmonica della Scala e l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Anche in virtù degli autori scelti: Beethoven per Chailly, in occasione dell’integrale sinfonica che il direttore scaligero ultimerà prima dell’estate; Mahler per Gatti.

Il Beethoven di Chailly è tutto compreso nei suoi valori “testuali”. La bravura del maestro sta tutta – e non è poco – nel trovare la quadratura del cerchio rispetto a una serie di prescrizioni sulla carta impossibili: metronomi lesti, dinamiche sfrangiate e dettagliatissime, sonorità orchestrali equilibrate ed eufoniche, compattezza espressiva. Negli ultimi concerti alla Scala (replicati in una tournée che ha visto la Filarmonica presente in importanti sale da concerto d’Europa) tutto questo ha avuto una bella dimostrazione nella strana coppia Quinta e Ottava. Ma già con l’Egmont che le introduceva si è avuto un saggio perfetto di questa vocazione “oggettiva”, che ha portato Chailly a scoprire i molti “piano” disseminati nella partitura e di solito trascurati. Cosi la sfida di Chailly coincide nel far musica all’interno di un sistema di prescrizioni vissuto come imprescindibile. Bellissimo, per esempio, lo sfumare del tema d’esordio dell’Ottava, sospeso in levare, nonostante lo stacco di tempo vertiginoso. Cosi come il ricercato sistema di accenti sui tempi deboli dell’ultimo movimento, ottenuto a velocità intrepide. O il fraseggio dell’Allegro con brio della Quinta, tutto sospinto in avanti come una corsa senza requie, eppure colma di aritmie.
Da quella stessa camicia di forza – il testo, e i suoi valori prescrittivi – Gatti dà invece l’impressione di volersi svincolare quando dirige – per esempio – La Nona di Mahler. Già il modo di attaccare il sospiroso tema iniziale coincide con una sua plastica e liberissima “ricreazione”, affiorante dal silenzio senza prescrizioni di tempo. Il suo Andante comodo è un continuo perdersi e ritrovarsi: agogico, dinamico, espressivo. La musica “di” Gatti sembra rinascere ogni volta lì per lì. E in questa Nona lo fa con una sensibilità asimmetrica e estrema. Nel melos rapsodico e straziato, nei cataclismi sonori impudichi ma pure squadrati. Il Ländler è goffo, opportunamente sgraziato, con oasi timbriche ricercate e premonitrici. Il Rondò di un’impersonalità addirittura sgradevole. L’Adagio conclusivo appassionato, tutt’altro che ripiegato. Gatti, col suo stare sul podio libero, lascia presagire in questo Mahler l’avvento della Neue Musik. Sbalza il suo lato profetico e lo mette a confronto col “mondo di ieri”, citato tra virgolette. Mandando così in soffitta la retorica della “Sinfonia dell’addio” come ripiegamento biografico, laddove è semmai un testamento artistico. E tutto questo lo fa nonostante un’orchestra della Rai poco compatta nei singoli gruppi strumentali (violini aspri, ottoni sfilacciati, fiati perforanti), non all’altezza della sua classe, mentre la Filarmonica della Scala – pur non risolvendo tutte le sfide esecutive del caso (manca talvolta l’assieme limpido degli archi in velocità) – sembra aver coltivato, anno dopo anno, l’ideale di un suono orchestrale come corpo sonoro unico.
E poi c’è Muti, al suo secondo ritorno alla Scala. Con un’orchestra, la Chicago Symphony, strabiliante. Che per contrappasso sporca l’attacco dell’ouverture dell’Olandese volante. Ma che è un miracolo di brillantezza e potenza, duttilità ed eufonia. Muti sembra a volte compiacersene (e come dargli torto). Per esempio proprio in questo Wagner dal passo solenne, segnato dagli appelli “bruckneriani” di corni, trombe e tromboni. E d’altra parte l’impaginato si proiettava su due partiture del pieno Novecento, con cui Muti ha una grande familiarità. La Sinfonia di Hindemith tratta dall’opera Mathis der Maler e la Sinfonia n. 3 di Prokof’ev, i cui temi provengono dall’Angelo di fuoco. Una locandina in cui sinfonismo e teatralità si confondono, ma che Muti risolve all’insegna della straordinaria efficienza orchestrale: anche quando – per esempio in Prokofiev – il mondo oscuro, demoniaco, arroventato da cui deriva la Terza richiederebbe un altro genere di tensione. Muti sente questo Prokof’ev, come Hindemith, in chiave “neoclassica”. E libera la sensibilità “operistica” sotto mentite spoglie sinfoniche  – che era il “programma” del concerto – solo nell’ammaliante Intermezzo di Fedora concesso come bis, festeggiato con una tempesta di applausi.
Andrea Estero

 

Torino

 

Mahler
Sinfonia n. 9
Direttore Daniele Gatti
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Auditorium Rai

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Milano

 

Beethoven
Egmont (ouverture)
Sinfonie n. 5 e 8
direttore Riccardo Chailly
orchestra Filarmonica della Scala
teatro alla Scala

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Wagner
L’Olandese volante (ouverture)
Hindemith
Sinfonia “Mathis der Maler”
Prokof’ev
Sinfonia n. 3
Direttore Riccardo Muti
orchestra Chicago Symphony
teatro alla Scala

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