Puccini – Madama Butterfly

Napoli butterflyinterpreti R. Angeletti, V. Costanzo, M. Caria, A. Pennisi direttore Nicola Luisotti regia Pippo Delbono teatro San Carlo

NAPOLI – Identiche e contrarie. Speculari. La Butterfly messa in scena per la prima edizione del San Carlo Opera Festival (etichetta che riassume le nuove attività estive di un teatro convertito alle esigenze della produttività) è il negativo fotografico della Cavalleria che, nata nel 2012, l’accompagna a giorni contigui. Due tragedie della modernità, stesso impianto alto e vuoto su cui si aprono enormi finestroni, colori invertiti: le pareti purpuree illuminate dai violenti raggi di sole diventano in Puccini di un bianco accecante punteggiato dal rosso dei garofani sparsi e del kimono di Butterfly. Simbolo della candida illusione matrimoniale, ma anche – nelle culture orientali – di lutto e morte. E l’unico oggetto presente in scena è un tavolino sulla sinistra: dove prima si appoggiava stanca Mamma Lucia, ora discettano Pinkerton e il console americano.

Nasce così, dalle necessità produttive di un festival, la nuova Butterfly per la regia di Pippo Delbono. E vi si adatta replicando con abnegazione lo stesso schema: lettura di un breve monologo prima dell’opera (e di una poesia di Prévert all’inizio del secondo atto) e progressiva, ben orchestrata, irruzione dello stesso regista sul palcoscenico a sorvegliare la recita. Nume tutelare di perdenti e sconfitti.
Quello di Delbono è un teatro antipsicologico che i teorici dello spettacolo definirebbero “epicizzante”. Ma l’autore onnipresente qui non è capocomico, né narratore di imperturbabile saggezza. Vive e soffre in silenzio con i personaggi. Li assiste nei loro precipizi sentimentali come fa il coro della tragedia greca o, per analogia, quello a bocca chiusa che accarezza Butterfly alla vigilia della sua ecatombe. Insieme a lei si prepara alla festa, disponendo allegramente i fiori (senza risparmiarsi giocose ironie gestuali sulle “cineserie” d’orchestra); poi l’accompagna rivivendo quel suo ultimo atto, necessario. Guardandola impotente. Le perdite di Butterfly sono le sue, le nostre, perdite. Lì, nella Cavalleria, c’era lo straziante distacco dalla madre (sbattuto con impudica, poetica, verità sullo schermo di Sangue, ed elaborato a teatro con Orchidee); qui l’omaggio del cuore a un’amica attrice, suicida per amore come la piccola geisha pucciniana. L’autobiografia, recitata nel monologo d’apertura, straborda in palcoscenico con un Bobò vestito da arlecchino, esattamente come nell’ultima recita di lei prima del lancio nel vuoto. E diventa universale.
A uno spettacolo così interiorizzato, dove i personaggi sono figure che si dispongono in tese geometrie ritualizzanti intorno al sacrificio dell’Eletta, corrisponde la superba direzione di Nicola Luisotti, chiamato a tre giorni dalla prima a sostituire Tito Ceccherini. Al maestro tocca annunciare dal podio la morte di Lorin Maazel. E caso vuole che la sua Butterfly, nel raffinato e umbratile gioco leitmotivico, dipanato come una sensibilissima rete di colori e battiti strumentali eppure mai ignaro delle iperboli teatrali e vocali, ricordi proprio la grande prova del direttore americano. Al netto delle voci, s’intende: quella di Raffaella Angeletti ha bei centri, ma gli involi sono solo accennati (causa un’indisposizione vocale) per poterla giudicare; l’altra di Vincenzo Costanzo scalda la curva sud, squillante ma ancora acerba. Ammirevoli mestiere e sensibilità si sentono invece in Anna Pennisi (Suzuki) e Marco Caria (Sharpless).
Andrea Estero

 


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