Puccini – Manon Lescaut – Roma recensione

interpreti A. Netrebko, Y. Eyvazov, G. Caoduro, C. Lepore, R. Constantinescu, A. Liberatore, G. Trucco direttore Riccardo Muti orchestra teatro dell'Opera di Roma regia Chiara Muti teatro dell'Opera

Roma 1 ph LelliROMA – Subito un bello sfogo da vociomane: Anna Netrebko debutta in quest’opera e da subito non canta Manon, lo è. Bellissima come il personaggio dev’essere (s’è sbarazzata di qualche chilo, e il viso è restato l’incanto di sempre), ha sciorinato fin l’ultima delle “trine morbide” d’una linea vocale che – poggiata bassissima come usava nel buon tempo antico e da lì raccolta tutta in avanti sulla maschera delle cavità facciali – diventa una colonna in cui solidità e uguaglianza fanno una cosa sola lungo l’intera ragguardevole estensione, e da lì si proietta con morbidezza e fluidità favolose al pari dell’incisività e luminosità assicurate appunto da tecnica così scaltrita e inoltre governata da musicalità strumentale. Materiale simile, appannaggio d’una cantante che sta in testa alla non folta pattuglia di fuoriclasse odierne, viene poi illuminato da una di quelle tavolozze cromatiche di cui solo il fraseggio degli artisti di classe superiore possiede il segreto. E se all’accento vario, intelligente, chiaroscuratissimo lungo una dizione perfetta,  aggiungiamo quella cosa misteriosa che se ce l’hai ce l’hai giacché studiarlo – a differenza della vocalità – non si può e che si chiama carisma, eccoci regalata una Manon semplicemente storica: note perfette (tutte, ma proprio tutte; e di simile partitura) d’una cantante gigantesca, che un’artista del pari gigantesca rende di comunicativa bruciante.Muti affronta l’opera al modo suo solito, confermando la propria filosofia artistica del “prima la musica poi le parole”. Un approccio squisitamente – ed esclusivamente – sinfonico, che illumina dall’interno la straordinaria ricchezza della partitura evidenziandone la già novecentesca novità attraverso la messa in valore d’infiniti dettagli strumentali. Il guizzante, traslucido gioco contrappuntistico dei fiati al prim’atto. La miracolosa liquidità iridescente della rievocazione settecentesca al secondo. Le brunite, dense nervature d’un Intermezzo dai toni cupi ma resi sempre nitidi da una strana, ipnotica luminescenza interna riverberata nel prosieguo fino a un concertato dell’imbarco che può fungere da riassunto dell’ottica interpretativa di Muti: un’indagine della materia musicale tanto capillare e raffinata da porre in deciso secondo piano quella sua funzione drammatica cui tradizionalmente ci si affida per intero. Inutile quindi cercare tensione o urgenza narrativa (alquanto seduti, a vero dire, sia il second’atto sia il “No, pazzo son”), al pari di quella spumeggiante conversazione in musica cui d’altronde Muti s’è sempre mostrato allergico: non ci sono perché non si vuole che ci siano, sacrificate a una bellezza di suono che (Karajan ci ha pensato a lungo, ma senza decidersi) questa partitura non ha conosciuto mai. Partitura valorizzata da un cast che ha fatto degna corona alla protagonista: Yusif Eyvazov è molto giovane, moltissimo dotato in natura, logicamente un po’ acerbo per parte tanto carogna, ma se non strafarà certamente farà; Giorgio Caoduro ha fior di voce manovrata e accentata assai bene; un ottimo Musico (Roxana Constantinescu), un ottimissimo Lampionaio (Giorgio Trucco), un Geronte (Carlo Lepore) per una volta sonoro e incisivo anziché chiocciante ectoplasma. Partitura, al contrario, mortificata da uno spettacolo all’insegna della fiera del dilettante. L’idea d’un Settecento aguzzo, cupo e mortifero anziché tutto frulli di ventagli e sbuffi di cipria andrebbe anche bene: se però lo si sapesse fare. Ma quel deserto che c’è fin dall’inizio, con sopra sparse fanciulle simil-Manon; quelle specchiere erte sulle dune; quel tre alberi che sballonzola sullo sfondo e si muta poi in gigantesca prua al proscenio; quelle masse che fanno solo massa, infronzoluta dalle solite caccole di bambine, fiorellini e grembuline, vecchiacci che dovrebbero essere bavosi ma sono solo petulanti; quella seduzione che (Gesù!!) azzarda uno strip castigatissimo e costringe la povera Anna a sdraiarsi a gambe larghe ma poi la rialza subito facendola accoccolare accanto a Des Grieux stile innamoratini di Peynet sennò non sta bene: ma va là, a Milano c’è il sacrosanto detto “ofelé fà el to mesté”, e va bene che i figli sò piezz’e core, ma un’attrice così così non diventa grande regista a comando.

                                                                                                 Elvio Giudici

 


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299 Aprile 2024
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