Verdi – Otello

[interpreti] P. Domingo, K. Te Kanawa, S. Leiferkus [direttore] Sir Georg Solti
[regia] Elijah Moshinsky
[orchestra] Royal Opera House Covent Garden
[1 dvd] Opus Arte R3102 D

Ripreso a Londra nel 1992, l’Otello di Moshinsky ha tutte le carte in regola per piazzarsi ai primi posti, surclassando i dvd più recenti, quello berlinese Flimm-Barenboim (Arthaus Musik: un errore di percorso), e quello di Barcellona (Opus Arte) che presenta la sola attrattiva della regia di Willi Decker. Lo spettacolo del Covent Garden, viceversa, è di quelli solidi, costruiti con intelligenza e padronanza tecnica, all’interno di una consolidata tradizione teatrale britannica: un marchio di fabbrica contrassegnato da realismo storico, naturalezza e verosimiglianza della recitazione. Giganteggia ovviamente su tutti Domingo che, a più di quindici anni dal debutto, si conferma l’Otello per antonomasia dell’ultima generazione. Siamo certamente ormai lontani dalla truce retorica del moro selvaggio, confinato in una declamazione monotona, martellata sul forte, inesorabilmente piatta e psicologicamente arida, non senza venature grottesche, quali purtroppo si colgono anche nel canto bronzeo di Del Monaco, che di quel modello, nel bene e nel male, fu l’esponente più convinto e paradigmatico (da ascoltare nel disco Decca di Karajan, in coppia con Renata Tebaldi, la maggiore Desdemona della sua epoca). In realtà, Otello è assai più complesso e ambiguo, come seppe dimostrare, già negli anni ’60, Jon Vickers, che non a caso fu poi scelto da Karajan per lo storico remake discografico del 1973, che rimescolava le carte rispetto all’edizione di dieci anni prima e schiudeva effettivamente un nuovo mondo. Autentico maestro della parola, il tenore canadese, tanto poco seducente nel timbro quanto prodigioso nella dinamica, era capace non solo di languori estenuanti, ma anche di creare tensione con pochi tocchi di accento, transitando dalla calma sospesa di certi pianissimi a terribili esplosioni d’ira. Un gioco inquietante di contrasti, volto a tratteggiare un protagonista epico, ma tormentato, irrisolto, annidato in se stesso: insomma, il primo Otello integralmente moderno. Domingo realizza in altro modo il lato oscuro del condottiero, che non ha nulla a che vedere con la scomposta esagitazione verista. Da un lato la voce più sensuale dà tutto un altro spessore all’Otello più lirico. D’altro canto, le infinite sfumature del fraseggio concorrono a definire un personaggio su cui fin dall’inizio aleggiano oscuri e dolorosi presagi, ma che, nel progressivo scivolare nell’abisso, si rivela più umano rispetto a quello cupo e pessimista di Vickers. Così a grandi linee delineato il quadro, si può solo aggiungere che l’Otello di Domingo si deve anche vedere, oltre che ascoltare. A Londra, sotto la direzione flessibile di Solti, lo affiancavano l’ottimo Jago di Leiferkus (dizione a parte, grande attore e fraseggiatore eccellente) e la Desdemona educata di Kiri Te Kanawa: brava, ma certamente inferiore alla Freni e alla Scotto, insuperabili. Mirella Freni è stata la Desdemona di Karajan e di Kleiber, incarnando per il primo il bene allo stato astratto (con un’orchestra che ne sottolineava ogni intervento con una levità ed una delicatezza supreme) e per il secondo la donna nella sua purezza e femminilità. Irrinunciabili, per queste ragioni, sono il menzionato disco di Karajan, il video connesso (anche se la regia è discutibile) e il live della serata inaugurale scaligera del 1976 diretta da Kleiber (Myto; la stupenda ripresa televisiva dello spettacolo di Zeffirelli – nulla a che vedere con il posteriore film – chissà perché, non è in commercio: con una Freni più radiosa che mai, un Domingo fresco di debutto nel ruolo e un Cappuccilli in stato di grazia!). La direzione di Kleiber è travolgente ed è basata su una pulsazione ritmica, una trasparenza ed una cura maniacale del suono che superano ogni confronto. La Scotto è stata la musa di Levine (il bel disco Rca con Domingo e Milnes ne mette bene in evidenza la meravigliosa linea vocale e la stupefacente eloquenza) e del primo Muti a Firenze (qui l’altra grande novità era lo Jago elegante e mellifluo di Bruson, alternativo a Cappuccilli, che viceversa realizzava una torrenziale personificazione dionisiaca del male). Ancor più rifinito è l’Otello scaligero di Muti, un capolavoro di regia vocale e di aderenza alla partitura, che si avvale ancora della presenza determinante di Domingo. Abbado? Il grande assente della discografia, malgrado una lettura policentrica, in cui amore, morte e pietà sono posti nitidamente in risalto. Pavarotti? La grande delusione: con la sua voce lirica avrebbe potuto plasmare un Otello di riferimento. Bergonzi? L’enorme occasione perduta del più rilevante tenore verdiano del dopoguerra.

Giovanni Chiodi


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299 Aprile 2024
Classic Voice