Genere? Dilettante

Alle Olimpiadi non esiste la specialità di corsa col fiatone

Genere? Dilettante Sarà una delusione per chi già sperava di sapermi asceso e trasfigurato in Cielo: me ne dispiace, ma eccomi di nuovo. Si stava parlando dell’illustre e autorevolissima musicologa, relatrice in un convegno romano tenuto in aprile al Ministero della Pubblica Istruzione (ah, no, dimentico sempre, scusate: ora non è più pubblica!), la quale osservava che non si deve più dire “la musica” bensì, de facto, “le musiche”. Insomma, il mondo cambia: è l’effetto della “Mehrzahlseuche”  (pluralpandemiopatìa) già analizzata da Thilo Gottlieb von Schlendrian zu Wasswill-Dassagen, a causa della quale si deve parlare di “assessorato alla Culture”, di “amor di Patrie” e di “ministero delle Grazie e Giustizie”, e ogni innamorato, in estasi, deve oramai sussurrare all’amata, “tu sei i miei grandi amori”.

Ma riflettiamo  plurale proposto dall’illustre studiosa: “le musiche”. Proviamo: “storia delle musiche”, “teoria delle musiche”, i rapporti, nel Sistema delle arti Alain o nell’Estetica di Hegel, tra “le pitture, le sculture, le architetture, le musiche, le poesie, le danze…”, e il play boy che, invitando la fanciulla finta ingenua nel suo monolocale a luci diffuse dice alla vittima pluriconsenziente: “facciamo un po’ di musiche?”.  E tua nipote? Fa il Conservatorio, ha deciso di dedicarsi alle musiche. Funziona? Boh… e tuttavia procediamo. Mi si risponderà, con fredda commiserazione, che le “musiche” di cui parlava la musicologa sono una realtà, poiché sono i “generi”. Tanti “generi” posti democraticamentee antirazzisticamentesullo stesso piano orizzontale, e così infatti si costruisce nella nostra catto-populistica Tingutania la striminzita pagina intitolata Musica, cenerentola relegata all’ultimo posto, che in realtà non informa sulla musica bensì sul cascame discografico, ben distinta con paridignità in “pop”, “rap”, “metal”, e infine (ancora all’ultimo posto e con minore numero di righe) “classica”: dove il “genere classico” è quasi sempre,  un cd di finto  jazz un po’ contaminato, o magari Battiato (…), o l’ultima cantautrice groenlandese (interessantissima!), o un raro Blasco d’antiquariato. Non vorrei irritare alcuno, ma sapete che io la penso in maniera diversa. Mi permetto di proporre una dose minima di filosofia della musica (ma sì, “delle musiche”…): quelle che alcuni chiamano “le musiche” non sono “generi” di pari consistenza ontologica e axiologica, non si collocano su un piano orizzontale, alla pari: sono semplicemente diversi gradi e diversi livelli… ma sì, maledizione!… gradi e livelli, tutti , tutti – siamo laici, in nome di Lucifero, non censuriamo, non vietiamo! – però  (mia imprecazione censurabile) precisiamo, distinguiamo.   
   La musica è energia, in senso supremo e assoluto. Quella che impropriamente, ossia con significati equivoci e malcerti, è chiamata “musica classica”, io la chiamo “musica forte”, e lo sapete tutti. Musica forte perché? Immaginiamo che essa  ci restituisca, come energia per eccellenza, il massimo della variabilità semantica espressiva, ossia la massima densità e ricchezza di significati nell’avvicendarsi anche di pochi elementi; il massimo d’imprevisti e di colpi di scena; il massimo di complessità strutturale; il massimo d’inventiva melodica, armonica, ritmica; contrasti forti e fortissimi, di volume sonoro o di velocità, di emozioni o di… ma suvvia, lo sappiamo. Poi esiste una musica che di tutto ciò rende solo una pallida parvenza; e infine, una musica che è tutta un unico tamburamento monotono, immutabile. Possiamo dire che le tre specie di musica siano tre diversi “generi” da considerarsi sul medesimo piano orizzontale? O non sono piuttosto tre diversissimi gradi (o gradini, o livelli) di qualità, da considerarsi lungo una linea verticale, una scala qualitativa, e soprattutto una scala di diversi gradi di forza, di energia? Alle Olimpiadi, esiste per esempio la specialità dei 100 metri piani, e ci sono, in essa, le presenza più dissimili: i supercampioni, i così così, le schiappe. Non credo che esista, accanto a quella principale, la specialità dei 32 metri col fiatone e la lingua fuori, o la specialità dei 10 metri con fatale inciampo e ritiro dell’atleta. In letteratura c’è il genere (non-genere, secondo E. M. Forster) del romanzo; non c’è il “genere” del romanzo senza originalità, o del romanzo scritto con i piedi. Nell’arte della cucina, c’è la specialità dell’arrosto à la sainte Ménehoulde; non c’è la specialità dell’arrosto bruciacchiato o scotto, o la ricetta della maionese impazzita o della minestra immangiabile. Esistono generi e specialità, talenti o incompetenze, il saperci fare o il penoso fallimento. Non promuoviamo gli analfabeti a “naives”, né i poveri diavoli a eversori trasgressivi.
 
(17 settembre 2012)

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