I 70 anni di Riccardo Chailly

Al maestro e alle sue "Quattro stagioni" di vita artistica la copertina di febbraio

 

Non dirige spesso la musica di Vivaldi. Eppure la vita di Riccardo Chailly ha avuto le sue Quattro Stagioni. La ripercorriamo in occasione del suo settantesimo compleanno (il 20 febbraio), che il maestro festeggia con un nuovo cd dedicato ai grandi cori verdiani coi complessi scaligeri (Decca), pensando alla Lucia di Lammermoor che dirigerà al Piermarini dal 13 aprile. L’allestimento era nato per il 7 dicembre del 2020. “L’avevo studiata quasi con ferocia”, ricorda. Poi la pandemia se la portò via. Le quattro stagioni di Chailly (Berlino, Amsterdam, Lipsia e Milano-Lucerna), la sua vita professionale, in apparenza sono state un’eterna primavera. Nella “narrazione” di questo direttore non sembrano infatti esserci ombre, crisi, sofferenze. Forse anche per il suo pudore nel raccontarle. E allora il gioco è questo: rivelarne almeno una per ciascuna delle sue stagioni artistiche.
Cominciamo da Berlino. Era i primissimi anni Ottanta e lei divenne direttore, giovanissimo, di quella che allora si chiamava Radio-Symphonie-Orchester…
“A Berlino ereditavo un’orchestra di grande tradizione. Il mio predecessore era Lorin Maazel. Ripensandoci oggi, nella mia carriera ho dovuto sempre succedere a musicisti che mettono soggezione… (per chi non lo ricordasse Bernard Haitink ad Amsterdam, Kurt Masur e Hebert Blomstedt a Lipsia, Daniel Barenboim e Claudio Abbado rispettivamente a Milano e Lucerna, nda).
Quale valore ha avuto l’esperienza berlinese?
“È stata il punto di partenza di tutto. Avevo un sovrintendente illuminato come Peter Ruzicka, che mi ha aiutato a bruciare le tappe. Nell’incoscienza giovanile, ero cosciente di fare talvolta passi più lunghi della gamba. Eppure, poter affrontare subito il mondo mahleriano, Bruckner, i grandi classici tedeschi, è stato importantissimo. Grazie all’esperienza berlinese, infatti, quando sono arrivato ad Amsterdam avevo già familiarizzato con molte delle composizioni che al Concertgebouw costituivano il ‘canone’ che Mengelberg nei suoi 50 anni di attività aveva imposto: i grandi del Novecento, Mahler in primis, ma anche Rachmaninov, Stravinskij e le grandi pagine sinfoniche di Richard Strauss”.
Ricorda difficoltà?
“No. A Berlino ricordo una grande disponibilità da parte dell’orchestra, che non aveva nessun pregiudizio nei confronti di un giovane direttore italiano. Sono stato molto sereno per gli otto anni di permanenza”.
Eppure in quegli anni Berlino era ancora una città per certi versi “triste”…
“La divisione tra Est e Ovest era una ferita costante per la città. Quante volte la sera con mia moglie siamo saliti sulle piattaforme poste dinanzi al Muro che consentivano di avere una prospettiva sulla parte orientale della città. Ricordo le garitte delle guardie, e quelle luci tenebrose, tetre. Era impossibile vivere a Berlino non percependo la tensione di quella realtà”.
Dal 1988 è a capo dell’orchestra che più ha segnato la sua prima maturità, il Concertgebouw.
“Amsterdam ha rappresentato per me l’incontro e lo scontro con la tradizione. Ero ancora giovane, meno che a Berlino, ma comunque trentenne. Lì, a differenza che in Germania, ho vissuto una continua e costante tensione con alcuni musicisti e certa critica musicale. Mai con il pubblico, che mi ha sempre tributato calore, affetto e partecipazione. Erano peraltro gli anni ruggenti della mia vita, avevo voglia e desiderio di fare, la mia presenza era ‘enorme’ in termini di tempo, intorno alle 20 settimane all’anno come minimo. Questo significava anche tanto repertorio da mettere in cantiere…”.
Luci e ombre insieme. Qual era il problema di fondo?
“Essere il primo straniero dopo un secolo di direttori stabili tutti olandesi: Willem Kes, Willem Mengelberg, Eduard van Beinum e Bernard Haitink. La presenza di un giovane milanese portava sorpresa e agitazione, non c’è ombra di dubbio”.
Anche per le scelte musicali?
“No, semmai erano in discussione le scelte interpretative. Le decisioni sul repertorio erano orientate dall’intendente Hein van Royen, l’uomo che mi aveva portato a quel prestigioso incarico dopo avermi seguito e ascoltato dappertutto in Europa. Prima di darmi questa chance, ha voluto capire quali erano le mie caratteristiche, anche se era consapevole delle difficoltà che avrei avuto arrivando in orchestra. Dopo le iniziali frizioni, gli anni che sono seguiti sono stati sempre di maggiore intesa e complessivamente posso dire di aver avuto un lungo periodo di grandi collaborazioni: la parte centrale della mia vita di musicistia. Infatti alla fine ci siamo lasciati in maniera completamente compiuta e risolta. Ora torno ad Amsterdam una volta all’anno (il prossimo marzo, nda) perché mi hanno assegnato il titolo di direttore emerito, e ritrovarli come se non ci fossimo mai lasciati è un fatto bellissimo”.
C’entrava anche una differenza culturale, nel senso di nazionale?
“Essendo italiano e cattolico, la differenza con la cultura calvinista era molto evidente nella quotidianità e nel modo di pensare. Ma non è stata mai d’ostacolo a nulla sul fronte musicale”.
Peraltro la stessa cultura si trova in un’altra capitale del Protestantesimo dove è stato dal 2005, Lipsia…

(l’intervista di Andrea Estero a Riccardo Chailly continua sul numero 285 di “Classic Voice” in edicola fino al 15 marzo)


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299 Aprile 2024
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