Arrivederci Tell

Per un'edizione "da Scala" dell'originale francese bisognerà aspettare la prossima volta

Prima considerazione: Guillaume Tell, nella versione originale francese (qui per la prima volta alla Scala), è uno dei titoli più difficili dell’intero repertorio operistico. Qualunque regista, prima di affrontarlo, si farebbe il segno della croce. La presenza di scene corali, di danze e del balletto inserito come prassi all’interno del grand opéra (che non sono ornamento, ma sostanza storico-politica del dramma di Schiller), e il loro intersecarsi con la drammaturgia dei personaggi, che di quella sostanza si nutrono, infine il pericolo dell’oleografia e del bozzetto svizzero, rendono la sua rappresentazione un’impresa che richiede un dominio assoluto dei mezzi.

Seconda considerazione: la programmazione dei teatri d’opera è talvolta frutto di compromessi, equilibri, scambi. Non c’è da scandalizzarsi se la direzione di un teatro offre un titolo del cartellone alla figlia regista di un famoso direttore d’orchestra, che lo stesso teatro vorrebbe tornasse in buca, magari per un’opera e non solo per un’ospitalità (cosa peraltro avvenuta nel recente passato e fino un paio di mesi fa, alla testa di un’importante orchestra americana).

Terza: ci sono diversi modi per far sì che la prima e la seconda condizione non entrino in conflitto. Basterebbe non affidare la “prima volta” scaligera di questa complicata macchina teatrale rossiniana alla professionista di cui sopra; destinandole magari una prova meno cruciale, meno esposta, per esempio il titolo annuale dell’Accademia scaligera, o un melodramma meno stratificato e difficile da maneggiare. E invece no: la Scala ha deciso di dare a Chiara Muti proprio il primo Guillaume Tell della sua storia, chiedendole di scalare una parete di sesto grado. E di fatto consegnandola ai fragorosi “buu” indirizzatile diffusamente alla fine della “première” (oltre che alla prime repliche).  Da attribuire a pari merito all’imprudenza di chi affida e di chi accetta l’incarico. Intendiamoci: lo spettacolo di Muti non è tutto sbagliato e le contestazioni sono state eccessive se riferite alla messa in scena in quanto tale.

La regista ha tecnica e sa muovere un palcoscenico gremito di masse, con l’aiuto determinante delle coreografie di Silvia Giordano (ben gestito il divertissement che ha illuminato le olimpiche, impassibili, danze rossiniane di spietata crudeltà: d’altra parte il libretto allude esplicitamente alla violenza degli austriaci sugli svizzeri, e dunque il sabba sadomaso con cui è stato risolto, e innestato nella drammaturgia, l’inserto danzato di prammatica non è affatto improprio). Anche le idee non le mancano: in una Svizzera ai tempi di Blade runner (nelle scene buie di Alessandro Camera svettano palazzi di dieci piani) il dominio straniero è soprattutto tecnologico, da inebetimento informatico – anche se gli IPad con cui i montanari sono stati abituati a interagire poi si perdono per strada. E nel sublime finale la vittoria di Tell coincide con l’irrompere della natura (cascate e foreste proiettate sullo schermo) e con la liberazione dalla condizione di schiavi digitali: i patrioti, come rinati, dismettono la loro anonima tuta da “operai” dei social network, senza stipendio come sono gli odierni leoni della tastiera. Tra tecniche e “concetti”, quello che manca è però il livello intermedio: il modo di dar corpo e credibilità a personaggi così radicalmente ricreati. Il tonfo “estetico” arriva nel terzo atto, quando Gessler (Luca Tittoto) diventa un “cattivo” da fumetto, un Dart Fener in rosso un po’ drag (macchiettistici i costumi di Ursula Patzak), contornato da una sorta di compagnia di strampalate dominatrici. Non c’è traccia di ironia in Rossini e Schiller: qui invece la comicità involontaria gronda copiosa.

Peccato perché l’esecuzione musicale era di alto livello: e se il coro preparato da Malazzi fa meglio dell’orchestra, Michele Mariotti ha trovato la quadratura del cerchio rispetto ai Tell diretti a Pesaro e a Bologna. Quelli erano ancora belcantistici, concepiti come la somma di “numeri d’opera”; questo è più drammatizzato, più “stretto”, anche se sempre scavato e parlante negli accompagnamenti e nei momenti di protagonismo orchestrale. Nel cast spicca la vocalità squillante, centratissima, di Dmitry Korchak (Arnold) e l’intensità espressiva di Michele Pertusi. Più povera di accenti e vibrazioni la pur corretta Mathilde di Salome Jicia.
Andrea Estero

 

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299 Aprile 2024
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