Cherubini – Medea

TORINO

interpreti A. C. Antonacci, G. Filianoti, G. Parodi, S. Mingardo, C. Forte
direttore Evelino Pidò
regia Hugo de Ana
teatro Regio

Quando un’opera s’identifica  strettamente con un interprete, ogni scostamento dai suoi parametri esecutivi sembra bizzarria. Medea, fino agli anni Cinquanta poco più d’un nome nella biografia d’un autore peraltro quasi mai eseguito, fu quella che la Callas portò in scena: e la Callas fu Medea prima d’ogni altro suo personaggio, Norma inclusa. Ma oggi come oggi (ricordo che la Callas è morta da trent’anni, e che la sua Medea ne ha cinquanta), indipendentemente dal fascino certamente ancora inossidabile di quel che Confalonieri chiamava "il fiato tragico" callasiano, calza con quanto adesso si sa di Cherubini un’interpretazione dagl’impeti e furori assai più fine che inizio Ottocento? Ci sarebbe materia per ampia discussione. Personalmente, rifiuto l’idea che un’interpretazione, per grande e fascinosa che sia, esaurisca le possibilità di un’opera: se accade, allora l’opera non è poi granché. Medea, invece, è un capolavoro. Ma quando fu scritta, Gluck era morto da appena dieci anni, e Rossini non aveva ancora cominciato a comporre: e fu scritta in Francia, assumendo su di sé la tradizione ormai consolidata, tuttora operante perché tuttora apprezzatissima, della tragédie lyrique: nella quale l’arroventarsi della furia è in diretta relazione col gelo altisonante della forma, come le tragedie di Racine stan lì a dimostrare, e immaginiamoci la sua Fedra affrontata da una Magnani. Tutto questo per dire che no, Anna Caterina Antonacci non è la Callas, esattamente come a Firenze non lo fu Shirley Verrett nel memorabile spettacolo della Cavani diretto da Bartoletti: ma tanto l’una quanto l’altra scrivono una pagina non meno alta nel libro dell’interpretazione di Medea. Splendida voce; ampia, solida, ben sostenuta e benissimo proiettata la linea vocale, dove occasionali asprezze nello slancio all’acuto non inficiano né l’omogeneità né il colore del suono. Ma quanto conta davvero, è cosa l’Antonacci fa con tale linea: che accenti, inflessioni, colori v’imprime il trasmutare della dinamica, il continuo lavoro sullo spessore e sull’intensità, lo scolpire ogni parola d’ogni frase e ogni fonema d’ogni parola dando loro senso compiuto lungo un’evoluzione psicodinamica di complessità ma anche appropriatezza eccezionali. Non solo maga, né solo furia vendicatrice: soprattutto donna, offesa proprio nella sua femminilità, vaneggiante, debole, confusa, sempre più allucinata e quindi animata da forza via via crescente, non c’è piega dell’ampio ventaglio espressivo contenuto nella musica di Cherubini e nei recitativi di Lachner che l’Antonacci non esplori, colga, comunichi, colleghi alle altre preparandone le successive. Questo significa interpretare: possibile perché si sa cantare, e materia indispensabile per una recitazione modernamente intesa, cosa parecchio diversa dal gesticolare effettistico tanto caro a certa tradizione melodrammatica da loggione antico anelante alla divazza. E la recitazione dell’Antonacci, così asciutta, tutta di sottrazione e concentrazione, sempre strettissimamente legata alla parola, nel panorama lirico odierno sta a sé, entro il recinto esclusivo e ancor poco frequentato delle Dessay, Netrebko, Keenlyside, Kaufmann, Villazon: e meno male che almeno un’italiana c’è. Bellissimo spettacolo, ambientato in un dopoguerra contadino alla Terra trema, dove tradizioni, riti e convinzioni affondano nella terra aspra battuta dal vento e dal mare, sempre volta al trasmutare delle stagioni. Un filo prosaica, invece, la direzione: bene l’assenza d’ogni inopportuna enfasi, ma qui l’asciuttezza non è concentrazione drammatica bensì uno scivolarci sopra. Molto bene Filianoti (sempre splendido il timbro, sicura e timbratissima la regione centrale, robusta la linea), benissimo Parodi che canta in tono l’aria parecchio carogna di Creonte e la canta splendidamente, bene la Mingardo e male la Glauce stridula e sforzata della Forte.

Elvio Giudici

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299 Aprile 2024
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