Giordano – Andrea Chénier – Teatro alla Scala – recensione

Chailly propone una "riforma" del Verismo che è supportata da notevoli prove vocali ma non dalla regia

MILANO  (Andrea Chenier,  7-12-2017, recensione) – Dopo il trionfo, il boicottaggio critico e la difesa del Verismo arriva la sua “riforma”. La compie Riccardo Chailly al suo terzo Sant’Ambrogio dirigendo Andrea Chénier per la seconda volta alla Scala, ma ora ricominciando da capo. La lettura di Chailly sembra partire dalla consapevolezza che non solo non c’è niente di verghiano nella drammaturgia di Giordano (e questo è evidente a partire dal soggetto e dal suo trattamento), ma neanche nulla di veristico, nel senso dell’enfasi, della ridondanza esecutiva epidermicamente appagante. La trama (non solo) orchestrale tessuta da Giordano è il motore di un dinamismo stupefacente, che detta un tempo di azione rapido, vario e del tutto privo di compiacimenti musicali fine a se stessi. E’ lo sguardo moderno e “cinematografico” dell’autore, che disdegnava i pezzi di musica belli e inerti, al posto dei quali inseriva con padronanza di montaggio estroversioni liriche parlanti e concentrate, come suggerivano i tempi dell’amatissimo grammofono.

Di questo “realismo” sinfonico-vocale la concertazione di Chailly è la traduzione perfetta, a partire dalla scelta di non interrompere il flusso orchestrale per lasciare spazio agli applausi di prammatica alla fine delle romanze, in simbiosi con le “dissolvenze” sceniche tra un atto e l’altro, favorite dal meccanismo girevole di Margherita Palli che ha risolto brillantemente i cambi scena. La sua narrazione è estremamente differenziata e viva, ma tutt’altro che incapace di affondare nella carne e nell’anima della partitura. Invece di affidarsi soltanto al termometro dinamico, Chailly insegue un’emozionata libertà agogica, traducendo la caratteristica frammentazione del linguaggio “verista” in una mobilissima differenziazione di tempi e andamenti. Lo si è sentito nei maliosi rallentando del coro “O Pastorelle Addio” nel primo atto, nella gestione del duetto d’amore del secondo e soprattutto nella scena del processo, dove il ritmo serrato non esclude sospensioni liriche divaganti.

La reinvenzione in chiave “belcantistica” riguarda soprattutto il lavoro coi cantanti e segnatamente quello con il protagonista. Yusif Eyvazov era atteso al varco come punto critico della distribuzione. E’ vero, non ha un timbro vocale fascinoso: ma di questo non possiamo fargli una colpa. Ha avuto però il merito di individuare una dimensione lirica giusta per questa parte, fatta di involi appassionati ma anche di spiazzanti ritenzioni, perfino all’interno dei monologhi più accesi. Certo, man mano che la dimensione tragica cresce emerge pure l’incapacità di emanciparsi dal training direttoriale. Carisma e personalità non mancano invece nella ragguardevole prestazione degli altri, Luca Salsi (Gerard) e Anna Netrebko (Maddalena), che sfodera nella “Mamma morta” quel magnetismo scenico-vocale che sembrava difettarle nei toni da commedia svagata della prima parte.

La “regia” era comunque soprattutto quella dettata dal direttore a orchestra e voci. Quella propriamente scenica era molto più ordinaria. Non tanto per l’assenza di annotazioni sparse, qua e là apprezzabili (il fermo immagine della vacua nobiltà di corte sul risentimento di Gerard e l’ingresso dei mendicanti alla fine del primo atto con l’assieparsi al centro del palcoscenico della nobiltà assediata avevano lasciato ben sperare), quanto per la latitanza di una cornice ideale. Cosa dice lo spettacolo di una Rivoluzione francese di cui il librettista Luigi Illica rileva tutta la sua tragica e stolta inadeguatezza? E cosa ha da dire Mario Martone alla svolta ideale e sentimentale, quando l’ormai pentito Gerard riflette sulla perdizione di una patria che invece di celebrarli “uccide i suoi poeti”? Domande che non trovano risposta in uno spettacolo che sforzandosi di non essere oleografico finisce per restare soltanto illustrativo.
Andrea Estero

 

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