Gluck – Orphée et Euridice

Michele Mariotti ha optato per una lettura neoclassica, molto rifinita nei dettagli, ma poco pulsante
interpreti J.D. Florez, C. Karg, F. Said 
direttore Michele Mariotti 
regia e coreografia Hofesh Shechter e John Fulljames 
teatro alla Scala

MILANO – L’orchestra è collocata su una piattaforma issata sul palcoscenico. E quando Orfeo si inabissa negli inferi è essa stessa a sprofondare sotto la linea dell’orizzonte teatrale in una voragine illuminata dalle lucine accese su partitura e parti. Nell’Orphée et Euridice “di” Hofesh Shechter e John Fulljames la protagonista è lei, con le sue capacità estetiche persuasive. Non arbitrariamente: solo ammansendo col canto le Furie Orfeo può raggiungere Euridice nei Campi Elisi. Lo spettacolo, andato in scena per la prima volta a Londra, era stato pensato per gli English Baroque Soloists di John Eliot Gardiner. Da quando Gardiner ha diretto e inciso il titolo capitale del teatro di Gluck, le sue connotazioni sono definitivamente cambiate. Non più, non solo, la “nobile semplicità” che ne ha a lungo condizionato la ricezione. Gluck – già con la prima versione viennese di Orfeo, in italiano (1762) – ha “riformato” l’opera: ma nel senso della dinamizzazione, non della staticità. Il melodramma metastasiano era immobile. Invece all’interno di strutture imprevedibili e complesse, con scene intese come blocchi costituiti dall’alternanza di cori, danze, ariosi e recitativi, Gluck ha immesso linfa antica e nuova: c’è tutto il mondo dei concerti grossi all’italiana, del frenetico strumentalismo vivaldiano, della retorica affettiva e imitativa barocca a innervare le immagini interne a quella cornice. Questo aspetto è ancora più accentuato nella versione per Parigi (1774), più estroversa, varia e strumentalmente innovativa. La nuova generazione d’interpreti ha mostrato da tempo che con Gluck non ci si deve per forza annoiare. Michele Mariotti, al battesimo scaligero della versione francese, ha invece optato per una lettura neoclassica. Molto rifinita nei dettagli, elegante nei fraseggi, ossessionata dall’eufonia, ma poco pulsante: attenuando, nei cori ritmati e incalzanti, nelle danze del secondo atto e in quelle finali – un’autentica, crepitante, suite à la française – l’ebrezza cinetica. Non è una questione di disposizione (l’orchestra sta dietro i cantanti, ma spesso in posizione rilevata), quanto di intenzioni. L’Orphée di Juan Diego Florez, francesissimo tenore haute-contre voluto da Gluck al posto del castrato d’origine, le ha molto diverse. E cava dal suo strumento insospettabili accenti declamativi e affettivi. Più della rocambolesca aria aggiunta per Parigi alla fine del primo atto, colpiscono proprio i luoghi sulla carta meno “suoi”: il modo vario, sfaccettato, espressivo con cui coglie il rinnovato rapporto parola-suono della scrittura gluckiana. Esempio preclaro la celebre “J’ai perdu mon Euridice”, sfuggita nella ripresa all’attacco del direttore ma vissuta con un’intensità lacerante. Un’immedesimazione che trascina pure le più restie, suppur brave, Euridice di Christiane Karg e Amore di Fatma Said, quest’ultima allieva diplomata all’Accademia scaligera.
Se Mariotti li idealizza, Florez affonda negli smarrimenti affettivi gluckiani condividendo il tono ombroso e inquieto dello spettacolo. Un Orphée astratto e rituale nell’impianto scenografico, a chiaroscuro nei fasci di luce che bucano l’oscurità, “barbarico” nelle teatrali coreografie affidate alla bravura della compagnia di Hofesh Shechter che assorbe la gestualità d’epoca in un linguaggio attuale ed espressivamente dirompente. La presenza diffusa dei ballerini (a volte fusi e confusi col coro scaligero) limita la regia, ma non le impedisce di toccare corde profonde. Alla fine, quando “l’amour triomphe”, Orfeo si ritrova in scena da solo: dopo aver sognato il ritorno di Euridice, ora deve accettarne la perdita.

Andrea Estero

 

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298 Marzo 2024
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