Handel – Alcina

Handel - Alcina

 
MILANO
[interpreti] A. Harteros, M. Bacelli, P. Petibon
[direttore] Giovanni Antonini
[regia] Robert Carsen
[teatro] alla Scala

La Scala è sempre troppo grande per il barocco e a Milano continua a mancare un luogo per metterlo in scena. Ma che un Händel d’annata venga rappresentato al Piermarini con gli stessi criteri di casa a Parigi, Vienna, Zurigo o Berlino è comunque circostanza da segnare sull’agenda dei giorni felici. 
Le ragioni principali d’identità con le case europee del barocco stanno nella scelta di uno spettacolo, quello di Robert Carsen (a Parigi lo si poteva già vedere dieci anni fa), di sorprendente intensità. Anche e soprattutto nel suo trascorrere dalle lievità del primo atto – con la reinvenzione comica di Morgana e Oronte nei panni dei camerieri di Casa Alcina – ai chiaroscuri malinconici degli altri due, che vedono la sconfitta della maga, sola e sofferente nel suo palazzo. Alla fine ridotta a un’ombra proiettata sulle pareti spoglie. 
Il lavoro di Carsen sui personaggi è magistrale, soprattutto in quelle controscene capaci di trasformare le arie in irresistibili e decisivi momenti di teatralità. Altro che staticità del barocco, da bigino di storia della musica. Bellissimi poi alcuni snodi finali, in linea con il generale clima nostalgico: il rito dei prigionieri nudi (perché privati delle loro facoltà, ma anche perché ridotti in schiavitù dalla magia del piacere?) che liberati si rivestono; il corteo funebre “a spalla” con cui s’accompagna il corpo di Alcina. Ruggiero non torna dalla sua Bradamante, la lascia sola e sparisce nel buio. Era meglio restare con la maga?
La nostalgia di un Arcadia perduta, rievocata e “citata” da un Händel molto ispirato, torna nella natura verdissima e lussureggiante che prorompe dall’esterno, aprendo le finestre. Ebbene sì, siamo in un ricco palazzo aristocratico o borghese e Alcina è una donna dell’alta società, amata da molti ma non dall’uomo desiderato, che le sfugge. E se ai tempi di Händel vestiva in abiti settecenteschi (e non favolistici, cavallereschi o rinascimentali), anche oggi, con Carsen, torna contemporanea.
L’altro motivo di riuscita si trova nella presenza di Giovanni Antonini, uno dei più capaci direttori di scuola filologica. Certo a Parigi William Christie dirigeva Les Arts Florissants, altrove i teatri d’opera hanno costituito ensemble “on period instruments”. Qui invece dobbiamo misurarci con professori restii a imbracciare strumenti d’epoca (solo qualcuno ha accettato di separarsi dal suo archetto). Antonini riesce comunque nel miracolo di farli suonare in maniera appropriata, con opportuni attacchi e articolazioni del suono. Dai conseguenti effetti ariosi, vitali, “parlanti”. 
Meno della  grammatica del suono ha però funzionato la sintassi. Prima giustamente serrata in un incalzante susseguirsi di recitativi e arie (un suicidio cercare di applaudirle tutte come in un recital di canto); poi eccessivamente allentata intorno alla sofferenza di Alcina: laddove lo scarto, la discontinuità, rispetto ad altri “affetti” avrebbe sbalzato quel patetismo con maggiore teatralità. 
Decisamente al di sotto delle aspettative il cast. Parigi ora si fa lontana. Non è in grado di sedurre e di imporsi la voce di Anja Harteros, Alcina patinata ma di scarsa personalità; così come la Bradamante di Kristina Hammarström e il Ruggiero di Monica Bacelli, di flebile proiezione vocale. E invece lo spettacolo del canto dovrebbe trionfare. Patricia Petibon aggiunge acuti sgradevoli e sfocature di stile (le messe di voce, queste sconosciute), ma si riscatta per la spiritosa gestualità. Convincente la prova di Jeremy Ovenden: ma un solo Oronte non basta per fare un’Alcina intera.
Andrea Estero

 


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