Roussel – Padmavati

SPOLETO 

[interpreti] N. Piccolomini, G. Surian
[direttore] Emmanuel Villaume
[regia] Sanjay Leela Bhansali

Nuovo corso al Festival dei due mondi, edizione numero 51: arriva Giorgio Ferrara, accolto da osanna ed evviva con corredo di strali e contumelie per la passata gestione Menotti. Quella di Francis, s’intende. Sulla carta per Giancarlo solo latte e miele. Ma solo sulla carta. Prodigo di elogi a parole, Ferrara si rifiuta di dire se metterà o no in programma musica del Fondatore. Al quale il Comune promette di intitolare un parcheggio in periferia con tanto di busto davanti. Un parcheggio? Un busto? Uno dei due teatri e un pezzo di Piazza Duomo (quello dove si affaccia la sua casa) dovrebbero dedicare a Giancarlo Menotti! Ma basta. Si parli della serata inaugurale: dinanzi a un pubblico non strabocchevole ma festosissimo e divertito, si dà, per la terza volta in Italia, Padmâvatî, opéra-ballet in due atti di Albert Roussel su libretto di Louis Laloy: non la riproposta d’una forma di spettacolo in voga nella Francia barocca (né, checché abbiano scritto certi critici, alcuna vena neoclassica nella musica), sebbene un tipo di rappresentazione musicale “in cui le danze, i cori, la magia di scene e luci abbiano una parte preponderante” (così il compositore nel 1912). Alla base della trama, una vicenda storica: nel 1303 la bellissima Padmâvatî (ovvero Padmani o Padmini), moglie di Ratan Sen (Rawal Ratan Singh), signore di Chittor (oggi Chittorgarh), si negò alle brame di Allouddin (Ala-ud-din Khilji) sultano di Delhi, che aveva cinto d’assedio la città, sino al punto d’immolarsi sulla pira colle sue ancelle; nella presente versione operistica, non prima d’aver ucciso il consorte ferito in battaglia: variante patetico-eroica (ecco a qual grado di sacrificio può giungere la fedeltà coniugale!) introdotta dagli autori. L’interesse della serata risiedeva in prima istanza nell’allestimento scenico, importato dal parigino Teatro Châtelet, dove lo si è visto a marzo: regia del cineasta indiano Sanjay Leela Bhansali, coadiuvato da Omung Kumar Bhandula (scene), Rajesh Pratap Singh (costumi), Philippe Grosperin (luci) e, soprattutto, dal coreografo Tanusree Shankar. Bhansali affronta Padmâvatî in presa diretta, quasi si trattasse d’una sceneggiatura pensata per Bollywood. I rossi e i blu intensi e caldi dei suoi film, quella fotografia appena sfocata negli esterni, visti come attraverso il velo d’una nebbiolina impalpabile, si ritrovano pari pari nelle luci (assai belle), ora nette ora sfumate e mutevoli, nei fumi abbondanti che avvolgono il cartiglio appeso sopra il boccascena con su scritto il nome dell’eroina (sembra la didascalia d’un film muto), i lumini al proscenio, le foglie di loto sparse all’intorno dalle danzatrici, le stoffe preziose, le colonne tortili, le finestre a sesto acuto, le guglie, l’altalena fatta di liane intrecciate, i simulacri divini indù (da Ganesha a Shiva, a Durga… ). Il fasto sbirluccicante e ingenuo della cornice accoglie un cavallo – e fin qui nulla d’inedito –, un elefante, addirittura una tigre, oltre a coreografie che potrebbero tranquillamente figurare in un film indiano tipo (una danza delle spade, una coi drappi rossi… ), eseguite da ballerine e ballerini senza macchia. L’unica libertà il regista se la prende nel finale (per il resto, didascalie rispettate alla lettera), ed è una libertà ben intonata al manicheismo etico e alla regola della morale univoca regnanti a Bollywood: il malvagio Allouddin (gestualità caricata la sua, un cattivo da melodramma), atterrito dall’olocausto della regina, si pente, mentre sul fondo si celebra l’apoteosi della coppia regale. Preziosa scoperta, sulla scena, quella della protagonista, la giovane e bella Nicole Piccolomini, voce di contralto come non se ne sentivano da parecchio, fonda scura e soffice come una notte senza stelle. Adeguati gli altri: Surian è un solido Allouddin, la brava Nadin l’ancella Nakamti, assegnataria d’un assolo che nella preziosità del rivestimento timbrico s’avvicina alla coeva Turandot di Puccini, Philippe Do un Bramino di voce sonora e penetrante ma un po’ forzata in alto, John Bellemer un Ratan-Sen dolce ma esile (perché non aver invertito le parti?). Emmanuel Villaume si applica con serietà all’intrico di ritmi e tonalità sovrapposte nella fitta partitura, non copre mai le voci, né indugia, come s’addice ad una musica poco propensa alla stasi (più vicina a Dukas che a Debussy), ad annullare lo scorrere del tempo.

Jacopo Pellegrini


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309 Febbraio 2025
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