Strauss – Elektra – Comunale di Bologna

interpreti E. Nebera, N. Petrinsky, A. Gabler, T. Hall
direttore Lothar Zagrosek
regia Guy Joosten
teatro Comunale

Bologna ph Rocco_Casaluci_2015BOLOGNA – Elettra si prepara per la festa, il massacro di sua madre. Indossati gli abiti eleganti dismessi ormai da anni, accenna a un passo di danza e si avvia a godersi il trionfo. Cioè a regnare col fratello Oreste sopra il cumulo di cadaveri sanguinolenti rivelato sulle ultime battute quando si sollevano le impalcature. Poi si accascia tra le sue braccia, incestuosa ma sfinita: la sua ossessione ora può placarsi. Con questa scena rivelatrice si conclude l’Elettra che il Comunale di Bologna ha importato dalla Monnaie di Bruxelles. Opportunamente. A saperli trovare, l’Europa è piena di spettacoli d’autore: perché incaponirsi a produrne di nuovi meno belli, pagandoli a volte perfino di più?
Elettra per Guy Joosten non è una belva rabbiosa, ma una principessa. Il suo scopo è ristabilire l’ordine precedente, non crearne uno nuovo. Vuole abbandonare il sottoscala dove è stata confinata per ritornare ai piani alti. Rovesciare, ma “doppiare” Clitennestra. Ammira quella donna snob ma piena di fascino, vincente e dominatrice: invidiabile in tutto tranne che nelle scelte amorose. Natascha Petrinsky ne lascia un ritratto vocale e scenico da manuale, quando si presenta scendendo le scale come una diva sensuale e ancheggiante. Per incontrare Elettra pretende che il letto della figlia si trasformi in una chaise longue su cui adagiarsi sotto l’ombrellone, al riparo dal sole. Ha paura di Elettra, perché le assomiglia; quest’ultima la odia ma senza rabbia. E il dialogo si svolge privo di scatti e isterismi, con reciproca comprensione. Una sfida di nervi, alla pari. Se l’Elettra del decennio – quella di Salonen e Chéreau vista alla Scala – viveva in una dimensione realistica e concretamente umana, questa sprofonda nelle fantasie dell’inconscio.
Elektra_PetrinskyPiù che le convulsioni dell’espressionismo, lo Strauss bolognese ama le paranoie decadenti di Hofmannsthal, “librettista nato” secondo le parole dell’autore. Anche sul podio. Zagrosek si lascia alle spalle il dogma dell’eccezionalità “profetica” di Salome ed Elektra: nella sua orchestra c’è ancora il vitalismo voluttuoso di Così parlò Zarathustra, arricchito da luminose dorature “viennesi” grazie alla sovraesposizione dei fiati. Le loro vacue ornamentazioni, insieme con l’insistenza sugli ammiccanti abbrivi di danza, generano spunti d’ironia subito raccolti dalla partitura visiva: dalle infermiere di Clitennestra, sempre al seguito con la opportuna dose di tranquillanti, alle sculacciate col frustino con cui gli scherani di Egisto domano i sudditi e forse si divertono tra loro nella stanza in cui – tutti uomini – si sono rintanati prima della tragedia.
Se Anna Glaber è una Chrysothemis sensibile ma appena sufficiente negli appelli drammatizzati e Thomas Hall un Oreste appropriato, l’Elektra di Elena Nebera non è vocalmente tornita, però si dà alla scena attraverso un canto che non si esaurisce in se stesso ma che proietta nelle parole intonate la loro imprescindibile anima delirante e visionaria.
Andrea Estero


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