Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk alla Scala- recensione

Regia e direzione contrassegnate dai rimandi cinematografici della creatività di Sostakovic
Sostakovic
Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk
interpreti S. Jakubiak, N. Mavlyanov A. Roslavets, Y. Akimov
direttore Riccardo Chailly
regia Vasily Barkhatov
teatro alla Scala
*****/****

MILANO – Stalin bandì Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, proibendone di fatto l’esecuzione e interrompendo la carriera di operista di Sostakovic, allora ventottenne. La Scala gli restituisce il maltolto ambientando negli anni dello stalinismo il titolo che ha inaugurato la stagione ’25-26. Lo spostamento funziona ed è giustificato dal fardello che questo titolo censurato si porta dietro: tra l’altro la prima italiana alla Biennale di Venezia con la direzione di Nino Sanzogno e le scene di Renato Guttuso cadde nel 1947, quando l’opera era proibita oltre cortina e lo stalinismo trionfava a costo di una pesante repressione. Proviamo solo a immaginare quali capolavori l’autore avrebbe potuto lasciare in eredità se il dittatore non si fosse messo in mezzo. Non siamo dunque in una arretrata provincia della campagna russa in epoca zarista, come nel racconto di Leskov, ma in una cornice urbana dell’Urss anni Cinquanta: come a ribadire che i vizi della società prerivoluzionaria – patriarcato, maschilismo, sessuofobia, violenza, sfruttamento – sono ancora tutti lì in forme diverse anche nella società del socialismo reale. Ma c’è un’altra ragione che rende lo spettacolo di Vasily Barkhatov “giusto” e in sintonia con la vorticosa direzione di Riccardo Chailly, ed è la gestione cinematografica dei tempi e delle azioni. Sostakovic era autore di colonne sonore proprio negli anni in cui il cinema sovietico scopriva il sonoro, più frequentato del teatro espressionista.

Le regia
Lo spettacolo della Scala inizia con un flashback (improprio parlare di “teatro nel teatro”): la protagonista è stata appena arrestata dalla polizia che la sta interrogando. “Certo, questa notte ho dormito, mi sono alzata, ho bevuto il tè con mio marito, mi sono di nuovo distesa”. E l’inizio sembra davvero una deposizione, accompagnata dalle immagini degli oggetti e prove dei delitti proiettate dietro la scrivania dell’interrogatorio che sale su e giù da una botola. Le efferate azioni successive dell’opera sono quindi ricordate in caserma e come “montate” cinematograficamente. Nel racconto di Barkhatov la polizia è lì a scrutare, riprendere, fotografare, documentare: il Kgb mette il naso perfino in camera da letto, invade Le vite degli altri, come la Stasi nell’omonimo film del 2006; il che procura pure un certo effetto comico e satirico che l’opera – a differenza del film – possiede in massimo grado. Insomma, la violenza, gli stupri, il sesso, gli omicidi ci sono, ma il regista li immette in un discorso visivo nuovo, non semplicemente realistico, o sboccato, ma thrilling e comico-poliziesco: “tragedia satirica” secondo Sostakovic. Certo, la confezione è fastosa, da “prima della Scala”: il ristorante d’epoca sovietica frequentato dalla Nomenklatura del patriarca Boris – che l’impianto scenico scorrevole di Zinovy Margolin alterna agli ambienti retrostanti délabré – fin troppo scintillante e lussuoso; e i cuochi che si aggirano dappertutto, e le cameriere, hanno qualcosa di disneyiano (però il coro preparato da Alberto Malazzi è da pieni voti con lode). Ma non mancano sottolineature e caratterizzazioni originali e pertinenti: per esempio il sadismo di Boris, che dopo aver frustato Sergej trema come uno psicopatico quale è; o il carattere vago, assente, infido di quest’ultimo che qui lascia che Katerina strangoli da sola il marito e rifiuta il sesso con lei rifugiandosi sotto la coperta ben prima del tradimento con Sonetka nel quarto atto.

Se poi il tema dell’opera è non solo il sesso desiderato da Katerina, ma anche quello mancato o detestato – l’impotenza del marito, che non la sfiora e non la mette incinta, e del viscidume del suocero, che vorrebbe possederla al posto del figlio – Barkhatov dà rilievo a entrambi: l’apparizione del fantasma di Boris (la cui voce è qui affidata al coro) a Katerina è l’incubo di essere stuprata dallo stesso suocero, e il ritorno del marito coincide col goffo e tardivo tentativo di impalmarla. Perfetta nello spirito comico-sarcastico dell’opera la sostituzione del pope ubriaco con un cuoco travestito alla bell’e meglio per dare la benedizione a Boris appena assassinato dalla Lady con un piatto di funghi condito al veleno per topi, come la scena del funerale di Boris, alla cui salma vengono riservati i grandi onori destinati ai notabili del Partito ma che poi vanga per il ristorante (non si sa dove spostarla) per finire dimenticata sotto un tavolo.
Nel terzo e quarto atto gli spunti teatrali si fanno più rari e resta solo la cornice fastosa (la scena satirica dei poliziotti nullafacenti e ubriaconi, qui schierati su un praticabile tutti elegantissimi in divisa bianca,  è troppo patinata per graffiare davvero) e le sorprese a effetto: il camion della polizia che irrompe in scena spaccando la vetrata del ristorante per traslare la scena in Siberia o l’omicidio/suicidio finale come autocombustione (invece che affogamento nel lago ghiacciato), benissimo realizzato dalle stuntwomen Beatrice Del Bo e Marie Schmitz – impressionanti torce umane per la prima volta impiegate alla Scala – sono tanto belli da vedere quanto teatralmente infecondi ed effettistici.

La direzione e il cast
Poliziesco, noir o serie televisiva che diventi, lo storytelling si trova con la superlativa direzione di Riccardo Chailly, anch’essa perfetta nello sbalzare l’avanguardismo della partitura, nel restituire la sua matrice urticante e modernista, ma non espressionista e teatralmente surreale come quella del precedente Naso. Qui la narrazione ha un ritmo indiavolato, frenetico che accosta, accavalla, “divora” stili e riferimenti disparati ma li lascia scorrere l’uno nell’altro come fagocitandoli. La violenza sonora ricercata da Chailly non è solo nel volume delle estroversioni orchestrali, fiammeggianti, aguzze e tutt’altro che belle o aggraziate, talvolta anzi agghiaccianti, ma nella velocità implacabile, nella spigolosa asciuttezza con cui profila timbricamente e consuma le fulminanti invenzioni musicali d’autore, tra acidi scherzi sinfonici, meccaniche, impassibili – e dunque tragiche – passacaglie, emersioni di stralci di musica di consumo e marionettistici ostinati da cinematografo, restituiti da un’orchestra scaligera padrona di una scrittura sfidante, con fiati e percussioni penetranti e sovraesposti. Ma Chailly sa anche creare zone di vuota desolazione, di afasica sospensione e immobilità: l’alternativa alla bulimia ritmico-dinamica è la negazione del movimento, il nulla che si spalanca e si lega all’unico personaggio che prova sentimenti ed espressivamente torreggia, Katerina. Sarah Jakubiak ne fa un ritratto di appassionata fragilità, di donna affatto mostruosa ma umanamente volitiva, con una voce più insinuante e sferzante che imponente, di intenso lirismo dove occorre. Alexander Roslavets canta bene ma recita meglio la parte del suocero laido e tracotante. Najmiddin Mavlyanov è un Sergej poco macho e sbruffone, piegato dalle frustate, attento alla parola e al canto. Yevgeniv Akimov un Zinovij troppo aspro e caricaturale, anche nel canto. Gli altri bene (Ekaterina Sannikova, la cuoca Aksin’ja, Elena Maximova, Sonetka), con un eccesso di caratterizzazione e brutte voci nelle parti di fianco (ma nel terzo atto il sergente di polizia, Oleg Budaratskiy, canta molto bene). Alla sua dodicesima inaugurazione Chailly propone un grande titolo del Novecento storico europeo. Dispiace solo che la Scala arrivi solo adesso a investire tutte le sue energie su un repertorio che dovrebbe invece far parte della sua stessa identità e missione.
Andrea Estero

 

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318 Novembre 2025
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