Verdi – Aida

All'Arena di Verona Anna Netrebko non fa rimpiangere le voci del passato
Verona
Verdi
Aida
interpreti A. Netrebko, Y. Eyvazov, C. Margaine, A. Maestri, G. Groissböck
direttore Marco Armiliato
regia Franco Zeffirelli
teatro Arena

 
VERONA – Da sempre, il turista vagamente melomane va all’Arena per lo spettacolo e poi per le voci, laddove il mediamente appassionato ci va per viceversa, e naturalmente il serioso intellettuale non ci va affatto. Data l’età, in Arena ho ascoltato praticamente tutte le grandi voci degli ultimi sessant’anni. Ne dovrebbe seguire il consueto e mortificante pellegrinaggio al Muro del Pianto Vocale: ma non ci penso proprio.
Anna Netrebko è una grande voce al modo antico: timbro splendido e personalissimo, di quelli subito riconoscibili; linea ampia, stupendamente omogenea in tutti i registri, morbida, luminosa nel raggiare degli acuti e debordante d’armonici nello scendere sotto il rigo, governata da musicalità di livello strumentale. Ma soprattutto, tecnica antica. Di quelle che consentono controllo assoluto dell’emissione, e quindi possibilità di lavorare sulla dinamica di conserva al lavoro sulla parola, aiutato da dizione perfetta: cosa che non tutte le grandi voci automaticamente fanno, preferendo spesso star lì in vetrina a fasi ammirare di per sé. Lei no. Intanto, lei entra e subito non ce n’è per nessuno: si guarda solo lei, questione di carisma, ce l’hai o non ce l’hai, e lei ne ha a pacchi. Ma poi attacca, e nel suo formidabile “correre” questa voce si sfrangia in un’infinità di colori, accenti, inflessioni, chiaroscuri; sale e scende ispessendo o assottigliando la linea sempre aderendo al significato della frase e all’oscillogramma psicologico. Segnalo, da vociomane, la prodezza prodigiosa d’un do acuto ai “cieli azzurri” (una delle note più pestifere di Verdi, anche perché tra le pochissime sue scritte davvero male) attaccato piano, rinforzato e smorzato via via fino a svanire in quell’immensa conca lasciando dietro di sé stordita stupefazione: ma con ben altra emozione sottolineo piuttosto certi piani così timbrati da avvolgere di suono fin l’ultimo di quei gradoni; la partecipazione attiva ai concertati, anziché nascondersi nelle loro pieghe come fanno tante e anche tanto famose; l’acutissimo senso teatrale nel costruire l’evoluzione d’un personaggio apparentemente facile, a fronte di quello forse più d’effetto di Amneris, e invece assai più complesso e articolato nella sua sensualità sottile, schiva epperò ovunque conturbante: come appunto dimostra questa artista, per la quale l’aggettivo “storica” è ormai l’unico appropriato.
Yussif Eyvazov è nell’ingrata posizione di dover sopportare il rischio della nomèa di “signor Netrebko”, aggravato dal timbro non propriamente baciato dagli Dei. E invece sa cantare, accidenti: cantare un gran bene, come sfoggia subito smorzando alla grande il si bemolle dell’aria (che non sarà pestifero come il do “azzurro” – anche perché scritto meglio – ma insomma  siamo lì) dopo averla, se non proprio cesellata, fraseggiata molto bene senz’altro. Ma poi chiaroscura di continuo, dando senso a tutto quello che canta: interprete autentico, insomma, non solo “canna grande così”, per dirla alla loggionese antico. Clémentine Margaine m’è piaciuta molto meno: voce modesta per timbro ed estensione, incerta nell’emissione, interprete non più che corretta. Ambrogio Maestri ormai è alla frutta se non al digestivo, e non sono certo due acutoni tenuti allo spasimo a “fare” un buon Amonasro. E non manca lo sconfinamento nell’indecenza nel caso di Ramfis: Gunther Groissböck c’entra poco col buon canto in generale e niente del tutto in quello del repertorio italiano, che pronuncia alla burgunda e massacra nello stile.
Armiliato non viene del tutto a capo delle insidie poste dalla particolarissima acustica areniana, e di scollamenti ne fa avvertire parecchi, specie nelle pagine corali, pur accompagnando nel complesso bene. E lo spettacolo è di Zeffirelli. Certo, tanta roba. Ma meno di molte altre Aide, e col ragguardevole vantaggio d’un impianto scenico che, oltre ad essere gradevole da guardare, consente d’eliminare gli eterni e micidiali intervalli tra scena e scena, riducendoli a uno solo: e d’altronde, com’ebbe a dire il mai abbastanza rimpianto Vick, se hai un palcoscenico così non puoi metterci solo una sedia e un portaombrelli.
Elvio Giudici
 

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