Gioachino senza freni

Promossi, bocciati e rivelazioni del Rossini Opera Festival, il primo guidato da Juan Diego Flórez

 

Poche volte uno spettacolo inaugurale del Rossini Opera Festival è stato tanto divisivo. Non per il pubblico: almeno quello della seconda recita, non finiva più di applaudire. Tra gli addetti ai lavori, invece, pareri contrastanti, e anche opposti. Il che è un bene, ovvio: la pluralità di opinioni è una risorsa. È stato Le Comte Ory (1828), l’unica opera comica di Rossini in lingua francese, ad aprire la 43esima edizione del ROF, in una rutilante messa in scena, alla Vitrifrigo Arena di Pesaro, in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna. Regia, scene e costumi, con disegno luci di Valerio Alfieri, recano la firma di Hugo de Ana, la cui fantasia ha ideato un tourbillon di movimenti, specie nel primo atto, di esplicito gusto nonsense e surreale, sulla scia di libretto e partitura, già di per sé intrisi di grottesco. Un po’ troppo? Ha esagerato, Hugo de Ana? In qualcosa sì, non si può negare. Ad esempio, nei pupazzi-dinosauri che invadono la scena al termine dell’atto primo. Ma l’asse portante del progetto di de Ana si sposa benissimo con la natura bislacca e caricaturale della vicenda, del tutto assurda, e della musica con cui Rossini la riveste. Anzi, questa messa in scena cammina benissimo sotto una partitura che è al servizio di un racconto stralunato, impossibile, e aderisce al valore della musica, catalizzandolo. E in più sottolinea che ci troviamo davanti a un linguaggio musicale dalla lettura molteplice, e di ondivaga drammaturgia, come dimostra il fatto che Le Comte Ory, ultimissimo lavoro buffo di Rossini, è per circa metà costituito dal recupero di varie parti del Viaggio a Reims, di tre anni prima.
È il quadro, anzi il trittico del pittore olandese Hieronymus Bosch (1453-1516), Il Giardino delle delizie, la fonte ispirativa di Hugo de Ana per il progetto scenico. Da lì egli riprende le creature mostruose, gli esseri stravaganti che popolano il palcoscenico, gremito soprattutto nel primo atto, e anche l’idea dell’uovo, quale originaria fonte di vita, che qui circola copiosamente in forma di uova di Pasqua. E come gli studiosi di Bosch non concordano sui significati del dipinto in questione, così la scelta di Hugo de Ana sembra scaturire dalla convinzione che un’opera tanto bizzarra come Le Comte Ory non vada illustrata con una messa in scena più o meno logica e usuale. E va sottolineato che l’affresco visivo proposto da Ana segue un ritmo che si coniuga esattamente con l’andamento della musica di Rossini, per di più illuminando l’eccentrico incedere dell’opera.
Sul podio dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI era Diego Matheuz che, dopo un Prélude piuttosto scompensato, trova poi un binario di lettura scorrevole, col quale governa efficacemente le complessità ritmiche della partitura, nonché il bailamme scenico. Magari si sarebbe desiderata maggiore finezza nel fraseggio, e più articolata varietà dinamica e coloristica. Ma in ogni caso l’ottima prova della Sinfonica RAI ha senz’altro aiutato il giovane direttore venezuelano. Grande protagonista, nel ruolo del titolo, Juan Diego Flores. Esemplare, la sua immedesimazione. In tutta la vicenda, con gustosa disinvoltura egli si cuce addosso una recitazione stralunata, pungente, autoironica. La sua vocalità è sempre ineccepibile, nella seduzione del fraseggio, nella pastellatura dei colori, nell’agiatezza in ogni registro, nel legato, nelle agilità. E, se nel lanciare gli acuti può apparire meno baldanzoso di un tempo, ma sempre sicuro e intonatissimo, in compenso gli risulta più morbido e vellutato il registro centrale; e ciò rappresenta una bella freccia in più al suo arco.
Molto positivo il debutto al ROF di Julie Fuchs, soprano leggero che alla sua Contessa ha dato agilità cristalline, fraseggio sagace, timbro morbido in ogni registro, e bella disinvoltura scenica. E altra sorpresa, anch’ella nuova per Pesaro, è stata Maria Kataeva “en travesti” come paggio Isolier, impeccabile vocalmente e scenicamente, e risolto con gran bel gusto e senso della misura. Ottima prova ha reso Andrzej Filonczyk, Raimbaud, anch’egli nuovo a Pesaro ma già affermato in Rossini, vedi il Figaro del Barbiere nel film tv prodotto dall’Opera di Roma. E lo ha confermato in particolare nella grande aria Dans ce lieu solitaire, la cui musica è importata dal Viaggio a Reims. Bene anche il Governeur del basso Nahuel Di Pierro, non valorizzato abbastanza dal piano registico, ma incisivo e ben calibrato nella sua limitata presenza. Non da meno riescono la brava Monica Bacelli, che nel ruolo non primario di Ragonde, figura complice e allusiva, marca nitidamente il proprio spazio vocale e scenico, e Anna-Doris Capitelli che si fa apprezzare come Alice. Bisogna citare infine il Coro del Teatro Ventidio Basso, istruito da Giovanni Farina, che nella vorticosa kermesse ha assolto dignitosamente la propria parte.
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Secondo titolo in cartellone quest’anno, La Gazzetta ha ripreso l’impianto visivo prodotto nel 2015. In quell’anno, come si sa, si è potuto finalmente allestire questo “dramma per musica” completo del Quintetto del primo atto, a lungo smarrito con notevole pregiudizio della partitura, e riemerso nel 2011 dalle collezioni presenti nella biblioteca del Conservatorio di Palermo. Presentata a Napoli nel settembre 1816, quest’opera segue di poco Elisabetta regina d’Inghilterra e Il barbiere di Siviglia, e di poco precede Otello e La Cenerentola. Ciò per ricordare che la commissione per La Gazzetta trova Rossini impegnatissimo su altri fronti. Il che aiuta a spiegare il suo ricorso agli autoimprestiti che qui fioccano in vari frammenti, provenienti dalla Pietra del paragone, dal Turco in Italia, dalla Scala di seta, da Torvaldo e Dorliska. Per non dire, sempre in tema di autoimprestiti, che la sinfonia della Gazzetta è poi stata dal compositore di peso trasferita a introdurre La Cenerentola.
L’attuale ripresa della Gazzetta ha riproposto, con interpreti diversi, la regia di Marco Carniti, su scene di Manuela Gasperoni, costumi di Maria Filippi, disegno luci di Fabio Rossi. E tutto funziona benissimo. Carniti cura attentamente un aspetto decisivo nell’opera buffa, che è il movimento e la caratterizzazione dei personaggi, tutti condotti entro il binario del gusto e dell’equilibrio nella gestione dei ritmi comici. Elegante e funzionale l’impianto scenico, nel suo minimalismo, e ben assecondato dalle luci, così come il riuscito insieme dei costumi. L’esecuzione è affidata alla solida bacchetta di Carlo Rizzi, che sul podio di un’apprezzabile Orchestra Sinfonica G. Rossini fa valere la propria esperienza e sicurezza. La sua concertazione governa la partitura con bel piglio, sostenendo attentamente i cantanti e ben misurando la varietà del ritmo e l’articolazione delle dinamiche. E anche il Coro del Teatro della Fortuna, preparato da Mirca Roscioni, adempie come si deve al proprio compito. Sugli scudi il basso Carlo Lepore, che risolve con intelligenza il suo Don Pomponio, calibrando sagacemente il peso del personaggio. E infatti egli esibisce florida vocalità e plastico fraseggio da un lato, e dall’altro attenta misura dell’ingrediente buffo e grottesco. La parte di Lisetta, primadonna, è assai impegnativa, lunga e punteggiata di difficoltà, tra colorature e varie agilità. Maria Grazia Schiavo la interpreta con bella tempra e vivacità, anche scenica, e una vocalità convincente, a cui non fa ombra qualche trascurabile inesattezza. Molto bene il baritono Giorgio Caoduro, che dà voce a Filippo con bella tecnica, dizione limpida, e infallibile sillabazione nelle vorticose colorature nella grande aria dell’atto secondo. Si orienta per lo più su accenti teneri e nostalgici la linea del tenore Pietro Adaìni per la figura di Alberto, ben dipinta con suono pulito e amabile; perciò anche per lui risulta irrilevante l’acuto impreciso nell’aria O lusinghiero amor, atto secondo. Tra le parti di fianco, Andrea Niño dà voce smagliante a Madame la Rose, e ben figurano anche Martiniana Antonie, Doralice, Alejandro Balinas, Anselmo, e Pablo Gálvez, Monsù Traversen. Citazione a parte per l’eccezionale bravura del mimo Ernesto Lama, Tommasino.
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L’inizio dell’Otello è preoccupante. Non musicalmente, anzi. Per le avvisaglie della messa in scena, piuttosto. Già dalla sinfonia, la regia si premura di proiettare su un grosso schermo ritagli di giornale che scrivono di femminicidi. E l’andirivieni in palcoscenico pare riferirsi alla vendita della dimora dove il dramma si è già consumato, con la fedele Emilia che è rimasta a ricevere i visitatori interessati. Tra questi, una coppia nella quale lui molla uno sganassone a lei, rea di chissà quale opinione, e spintona anche Emilia intervenuta in soccorso. Sembra di capire che, nel progetto visivo, ci sarà inflitto il flagello del “politicamente corretto”. Alla fine, dalla platea fioccheranno sonori dissensi per quella e altre idee, insieme a molti applausi, meritati, per altri aspetti della stessa regia e messa in scena. Aggiungiamo quindi che il progetto registico di Rosetta Cucchi prende forma tra le scene firmate da Tiziano Santi e i costumi di Ursula Patzak, con elementi scultorei dell’Atelier Davide Dall’Osso, e luci di Daniele Naldi. 
Trasportando in epoca moderna la vicenda  – che nel libretto di Francesco Berio di Salsa si distacca dall’originale shakespeariano –  la regia di Cucchi ne sottolinea l’arida crudezza costruendo un ambiente borghese, insensibile e anche violento, in cui c’è però il dovuto spazio per la figura delicata e trepidante di Desdemona, sballottata in un mondo di maschi che dichiarano di amarla, ma finiranno per procurarne la morte. L’esiziale triangolo, che vede la fanciulla dilaniata fra l’amore per Otello e l’ingiunzione paterna che intende assegnarla a Rodrigo, percorre i primi due atti. Il primo è ambientato in una cena signorile, nel corso della quale si definiscono personaggi e intrecci. Il secondo atto, con bella intuizione, catapulta il seguito nella stireria di casa, mentre al di là si svolge l’elegante ricevimento. Ed è qui, tra la servitù, che il dramma precipita nell’incalzante avvicendamento di duetti sbalzati dalla vena di Rossini, fino al terzetto tra Otello, Rodrigo e Desdemona. Appare però patetica l’idea del duello tra Otello e Rodrigo, risolto con la roulette russa e il revolver che passa di mano. Nell’atto terzo, la Canzone del Salice, in cui Desdemona ripercorre l’amaro destino dell’amica Isaura, originaria dell’Africa e accoltellata dal suo uomo, è contrappuntata da video sui due lati, e anche dal movimento coreutico di Yaimara Gomez, danzatrice di colore. Senz’altro di cattivo gusto, più avanti, mentre ancora si dispiegano i commoventi palpiti di Desdemona, l’idea di una serie di abiti da sposa sospesi alla parete, che via via cadono al pavimento.
Decisiva, per la riuscita dell’allestimento, è stata la concertazione e direzione d’orchestra di Yves Abel. Il musicista canadese ha impresso alla sua lettura un incedere avvincente e vibrante, che gli ha sempre fatto trovare gli stacchi opportuni, energici ma non affannosi. E quindi, lasciandosi alle spalle l’oleografia di un Rossini distaccato, classicheggiante, Abel ha portato in primo piano la nettezza di una scrittura orchestrale dalle innovative ricerche armoniche, e dai tratti già preromantici nell’ansia drammaturgica sempre palpabile. Dalla stessa linea discende l’incisività dei recitativi, l’attenzione a limare l’organizzazione in pezzi chiusi, tipica del melodramma dell’epoca, che Rossini qui invece tende a smussare. E tutto ciò è stato reso senza eccedere, nel rispetto della cornice stilistica, e con una limpidezza di suono orchestrale  – grazie anche alla superba resa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI –  che ha illuminato al meglio il finissimo splendore del linguaggio rossiniano.
Eccellente anche la compagnia di canto. Nel ruolo eponimo, Enea Scala ha tratteggiato un Otello orgoglioso e angustiato, intensamente espressivo nel canto come nella presenza scenica, che anche nei passi declamati denota un’attenta introspezione del personaggio e del mondo che lo circonda ostilmente. Piena ed efficace la sua vocalità, anche se mostra un po’ la corda nel registro grave, in una parte che del resto Rossini aveva concepito per baritenore. Degli altri due tenori, Dmitri Korchak è un  Rodrigo che esibisce vocalità snella ed eloquente, in una parte più omogenea rispetto ai chiaroscuri di Otello, con un timbro scintillante che si staglia cristallino negli acuti. Antonino Siragusa, terzo tenore nel ruolo di Jago, è impeccabile per proprietà vocale, con un colore espressivo risoluto e al tempo stesso acre nel dipanare la sua subdola trama.


Giganteggia Eleonora Buratto, una Desdemona memorabile per penetrazione interpretativa, controllo puntuale di fraseggio e accenti, timbro pastoso, delicatezza di emissione, e un’ampia estensione che le permette di spiccare acuti ben centrati, e suoni gravi compatti e rotondi. Spesso al suo fianco, l’Emilia partecipe e assorta del contralto Adriana Di Paola è emersa molto positivamente in un ruolo al quale Rossini dà ben altro rilievo rispetto a Verdi. Bravo anche il basso Evgeny Stavinsky nella parte di Elmiro, padre altezzoso e inesorabile di Desdemona, e lodevoli Julian Henao Gonzales, Lucio e Gondoliere, e Antonio Garés, Doge. Interpreti tutti calorosamente applauditi, insieme all’ineccepibile Coro del Teatro Ventidio Basso, ben preparato da Giovanni Farina.

Francesco Arturo Saponaro

 

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