Bellini – Beatrice di Tenda

Anche quest'anno Fabio Luisi deve rinunciare al Valle d'Itria. Sul podio un giovane talento, Michele Spotti
Martina Franca
Bellini
Beatrice di Tenda
interpreti G. Gianfaldoni, B. Pizzuti, C. Albelo, T. Kronthaler
direttore Michele Spotti
orchestra teatro Petruzzelli
Cortile del palazzo Ducale

 

MARTINA FRANCA – Hai visto mai che l’apporto più significativo di Fabio Luisi al festival della Valle d’Itria possa essere le sue rinunce last minute? Il ritiro dall’Ecuba diede ancor più risalto alla bravura di Sesto Quatrini che l’imparò a tamburo battente e la diresse benissimo. Ancora più eclatante il caso di Beatrice, con Michele Spotti (non ancora trentenne ma già ampiamente conosciuto come direttore tra i più seri, preparati e personali dell’attuale panorama, e che Marsiglia s’è premurata d’assicurarsi come direttore stabile; i nostri teastri, per l’ennesima volta, stanno in disparte; un po’ per celia, un po’ per…) che mai aveva diretto Bellini, e che l’impara in una manciata non di giorni ma di ore, non solo salvando la recita – già prevista purtroppo in forma di concerto – ma dando dell’opera la direzione migliore che mi sia capitato d’ascoltare, resa ottimamente dall’orchestra e dal coro del barese Petruzzelli, entrambi in grande spolvero.

Opera minore quantunque pur sempre di Bellini, si suole etichettarla. Fatico a condividere. C’è un’ampiezza delle forme, una libera originalità di scrittura (basterebbe pensare ai cori, tutti personalissimi e proiettati nel futuro), una novità sostanziale nel dilatare il marchio belliniano DOC delle melodie “lunghe lunghe” creando un prodigioso innesto di romanticismo entro impianto neoclassico, accanto al consueto debordare melodico: c’è insomma un materiale drammaturgico ricchissimo epperò assai insidioso nel suo richiedere un perfetto equilibrio delle sue diverse componenti. La morbidezza dell’orchestra di Spotti non svapora mai nell’evanescenza ma pulsa di continuo, trova colori di continuo cangianti nel mentre di continuo sospinge in avanti la frase facendola respirare, sembra sostenere la linea vocale ma in realtà l’avvolge e le imprime – con lavorìo dinamico e agogico di cui non t’accorgi subito perché non viene sottolineato edonisticamente però avverti quanto sia ovunque determinante – sottili brividi in guisa di altrettante trafitture melanconiche, creando atmosfere mutevoli che stringono la tensione senza mai farla allentare. Non ci sono esplosivi fuochi d’artificio, in Beatrice: ci sono – ci sarebbero – atmosfere di perlacea, austera melanconia che basta un niente per trasformarle in melodiosa e purtuttavia monotona melassa. La forza drammatica impressa da talune audacie di scrittura, quali ad esempio certe dissonanze: all’epoca dovevano essere rivoluzionarie, oggi no, ma appunto per questo occorre ricreare l’effetto-sorpresa (un po’ come in alcune delle più ispirate pagine cameristiche mozartiane), e Spotti lo fa in modo formidabile. Poi non solo accompagna benissimo: riesce a colmare talune ottiche un filo limitanti del canto, volgendole in pregnanza teatrale.

Il caso della protagonista Giuliana Gianfaldoni, soprattutto. Bella voce, ottima tecnica nell’appoggiare il fiato e nel proiettare quindi una linea morbida, omogenea, luminosa: alquanto esilina, tuttavia, e in più non particolarmente ispirata nel variare l’accento. La ricordavo ottima Nannetta a Piacenza, ma Beatrice è impegno non poco più gravoso tanto sul profilo vocale quanto su quello interpretativo. Facendo di necessità virtù, e mostrando ottima virtù perché sa comunque cantare assai bene, “fa” una Beatrice liricissima, melanconicissima, tutta sul chiaroscuro di piani, pianissimi, ultrapianissimi alitati a fior di labbro anche là dove il coturno  neoclassico della scrittura e della situazione drammaturgica imporrebbe ampiezza e intensità: sicché il rischio della monotonia, di quello che la fresc’anima popolare stigmatizzava col “e metti cacio e metti burro, e metti burro e metti cacio, alla fine mi stomacai”, viene evitato proprio perché, sotto quest’aereo ma sottile filo vocale, tempi e spessori dello strumentale creano una magica atmosfera come sospesa eppure sempre pulsante, la sensazione d’un vuoto non perché non ci sia niente ma perché non c’è forza di gravità, un “senza peso” che riesce ad avvitare un’incessante tensione emotiva. E anche questo è Bellini: un grande Bellini.

Ottimo il Filippo di Biagio Pizzuti: ovvio che, con orchestra siffatta, il rischio del “facciamo intuire già Verdi” – mortale tarlo che smangia così spesso così tante interpretazioni belliniane – lo si scansa in partenza, ma oltremodo mirabile è la morbida solidità d’una linea fluida e innervata da un fraseggio incisivo senza mai cadute nell’enfatico. Se senza storia è l’Agnese di Theresa Kronthaler, che canta benino e morta lì, ce n’è invece una, purtroppo, nell’Orombello di Celso Albelo: da un po’ di tempo attraversa una fase di forma precaria che gli fa produrre una linea forzata, con frequenti spinte da sotto che smangiucchiano l’intonazione e ledono perfino la solare bellezza timbrica.

Elvio Giudici

 

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299 Aprile 2024
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