Verdi – Luisa Miller

La direzione di Mariotti è calibratissima, con dettagli mai fini a se stessi ma teatralissimi
interpreti R.Mantegna, A.Poli. A.Enkhbat, M.Spotti, D.Barcellona
direttore Michele Mariotti
regia Damiano Michieletto
teatro dell’Opera

ROMA – Nessun titolo di Verdi è una passeggiata, sia in sede meramente esecutiva, sia – molto di più – per quanto concerne la sua resa interpretativa. Ma particolarmente difficili sono quei titoli che stanno sospesi sull’instabile ponte che unisce due diverse fasi del suo teatro: arduo scansare la tentazione di portarsi verso uno dei due estremi, in genere quello che guarda al futuro. Nel caso della Miller, la direzione che fin qui ho sempre ritenuto essere la più fascinosa, firmata due volte da James Levine (in cd e – meglio, molto molto molto meglio – in dvd), guarda con decisione verso il Verdi corrusco e contrastatissimo della più consolidata tradizione: “racconta” benissimo la storia. Michele Mariotti ha a mio avviso rivoltato la partitura come un calzino: ponendosi in perfetto equilibrio tra il Verdi cosiddetto prima maniera (mal detto ma pazienza) e quello della piena maturità prossima ventura, fa capire come nessuno prima cosa davvero Verdi abbia voluto fare componendo quest’opera.
La calibratissima concertazione evidenzia le molteplici raffinatezze strumentali ma non mai per sottolinearle di per se stesse bensì valorizzandone il loro costruirsi sul significato espressivo delle singole frasi: non solo racconta, quindi, facendolo peraltro sovranamente, ma scolpendo musicalmente i singoli caratteri e il loro oscillogramma psicologico, così da definire perfettamente il concetto verdiano di teatro in musica. La precisa evidenziazione d’ogni climax significa per Mariotti individuare agogica e dinamica le più idonee onde tracciare la scansione narrativa molto più coi personaggi che coi fatti: tendendo così un arco dalla tensione e dalla complessità di tanto maggiori in quanto ottenute lavorando di chiaroscuri, sfumature, colori, soffici ancorché scolpitissime morbidezze, ripiegamenti di lancinante pateticità. Mai schianti a freddo o men che mai spampanature melodiche, né quei contrasti dinamici esasperati che col loro meccanico yo-yo tra indugio e frenesia tanti credono di “fare il vero Verdi” e invece fanno solo fotoromanzi splatter.

Tra gli innumerevoli esempi di quanto il teatro di Verdi com’aquila voli se si sa lavorare sulla parola tanto con lo strumentale quanto col canto, citerei la scena (non duetto!) tra Walter e Wurm, pietra miliare del cammino che – partendo dal colloquio Lady-Macbeth dopo l’assassinio – realizza via via quel declamato ad
altissimo voltaggio melodico (si parla, ma si canta sempre, sempre – e come si canta!) che passando per la scena Rigoletto-Sparafucile, Filippo-Posa, culminerà col Falstaff dove tutto è canto fatto parola: come Mariotti l’ha srotolata, e come Pertusi e Spotti l’hanno accentata, rendono questo straordinario momento né più né meno che un capolavoro supremo.
Nemmeno è a dire, naturalmente, che razza d’accompagnatore sia Mariotti: che pertanto valorizza al massimo un cast già di suo eccellente.

Roberta Mantegna di Luisa ha tutto: voce ampia sostenuta da ottima tecnica (i pestiferi do e il re sovracuto schioccano come folgori), ma soprattutto quella sensibilità nel lavorare di dinamica a fini espressivi che la laureano grande artista, ovverosia grandissima voce verdiana. Antonio Poli ha un timbro paradisiaco e sa cantare, cesellando una “Quando le sere al placido” da far sciogliere di commozione: molto giovane, deve solo imparare a dosare le forze, evitando di arrivare alla fine un tantinello provato, quantunque niente di calamitoso. Nessun problema per Amartuvshin Enkbat, fior di voce torrenziale e bella, che stavolta – totalmente accogliendo i suggerimenti provenienti dall’orchestra – sfoggia un fraseggio notevolissimo. Ancora una volta, mi sono trovato a chiedermi che almeno una sera Michele Pertusi emettesse un suono men che perfetto, giusto per sentire che effetto farebbe: timbro, emissione, accento, il miglior Walter di cui abbia memoria. Accanto a lui, Marco Spotti cesella il miglior Wurm di sempre. Parte decisiva nel quadro drammaturgico dell’opera, Wurm lo costruisci più col fraseggio che con la voce: ma per scolpirlo così, tutto in sottrazione e di sussurro strisciante quantunque sempre timbratissimo (e con un gioco scenico impressionante, testa affossata nelle spalle, mani ad artiglio, serpente contorto che non cammina ma striscia), ci riesci solo se sai cantare un gran bene. La parte di Federica è piccola, ma la cantante deve essere grande, altrimenti nel quartetto a cappella manda fuori tutti (esempi a pioggia): Daniela Barcellona è perfetta.
Michieletto ha creato lo spettacolo molti anni fa a Zurigo: Andrea Bernard, ottimo regista in proprio, l’ha ricreato perfettamente. Scena a specchio, il nobilato tutto bianco di sopra con sedie nobili attaccate alle pareti e quello contadino sotto, grigio e con sedie povere capovolte sotto alle altre. Palcoscenico con girevole diviso in quattro spicchi anch’essi a specchio: letto di sontuoso mogano contro lettuccio di ferro, picciol desco a fronte di tavolo rotondo imponente. Due mondi opposti dominati da due padri padroni che schiacciano – con consapevole protervia l’uno, con rassegnata fatalità l’altro, ma il risultato è analogo – le speranze di felicità dei propri figli: e quanto avrebbe potuto essere, lo mostrano i due bambini sempre in scena che corrono, giocano, si nascondono sotto i tavoli e sotto le coperte, si rimpallano felici un candido palloncino. Spettacolo chiarissimo ma mai didascalico, costruito con gesti sempre significativi da un regista che, come sanno i veri grandi registi, fa recitare anche le sedie. Grande, grandissima serata. E pensate un po’: a Roma, nessun “povero Verdi” e successo caldissimo: dai che forse ce la facciamo.
Elvio Giudici

 

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299 Aprile 2024
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