Berlioz – Benvenuto Cellini

interpreti M. Spyres, S. Burgos, A. Charvet, L. Lhote, T. Nazmi
direttore John Eliot Gardiner
orchestra Révolutionnaire et Romantique
regia Noa Naamat
dvd Versailles CVS020

 

Ricordo molto bene la grande emozione provata negli anni Sessanta-Settanta quando Colin Davis impose finalmente la musica di Berlioz a un mondo teatrale fin lì rimasto freddo e che si può ben dire la riscoprisse, aprendo la strada a spettacoli concerti e incisioni spesso memorabili: il suo celeberrimo Cellini giunse in tournée anche alla Scala, e fu un avvenimento epocale. Poi, si capisce, il tempo passa e spesso alcune pietre miliari nella storia esecutivo-interpretativa restano appunto quali tappe nel cammino d’una strada sempre soggetta a divaricarsi: una diversità a imprimere la quale le interpretazioni di Gardiner sono state e tuttora sono fondamentali, fissate in registrazioni non meno storiche di quelle dell’illustre Sir Colin. Memorabilissimo, al proposito, il Benvenuto Cellini che Gardiner diresse nel 2002 nella Zurigo di Pereira, con la regia di David Pountney e un cast che schierava Gregory Kunde e Chiara Taigi circondati da elementi dell’Opera zurighese non del tutto all’altezza, ma con la chicca sovrana dell’apparizione di Papa Clemente VII cui Nicolai Ghiaurov prestava il suo proverbiale e inimitabile carisma. In quell’occasione, Gardiner aveva approntato assieme al musicologo Hugh McDonald (che fin dal 1966 aveva pubblicato un’edizione critica) una versione che sulla base della prima dell’opera (il colossale fiasco del 1838 a Parigi, dove Cellini dovette aspettare il 1972 – Parigi è sempre Parigi… – per ricomparire) inserisce diversi brani della seconda patrocinata da Liszt a Weimar nel 1852, con l’aggiunta di alcuni brani assai belli ma amputata di parecchi non meno riusciti: versione che felicemente lascia da parte ogni intento di dare spessore drammaturgico logico e coerente a un lavoro che quasi programmaticamente non l’ha, ma costruisce una drammaturgia interamente musicale.
La cosa sorprendente è che la recita da concerto in forma semiscenica si rivela perfetta date appunto tali premesse. Anche il coro (tutti vestiti uguali, pantaloni neri e ampia camicia bianca), che ora guarda e commenta dall’alto, ora scende al proscenio davanti all’orchestra scatenandosi in un Carnevale correndo e sbracciandosi ma non scordando di cantare benissimo: funziona perfettamente. Così come la gestualità singola è contenuta ma sempre efficace nel rendere chiara la situazione sentimentale che, molto più di un’azione in pratica inesistente, è quanto davvero conta.
La favolosa orchestra creata da Gardiner, coi suoi strumenti originali (si ascolta persino l’assai raro oficleide, nella pantomima di Re Mida), fa letteralmente faville. Dinamica sfaccettatissima, tempi incalzanti lungo profili ritmici tagliati col rasoio ma mai percussivi, concertazione stupenda che, giovandosi molto del ridotto suono degli archi, evidenzia ciascuno dei prodigi che Berlioz sciorina coi suoi impasti timbrici, però senza la minima caduta nel cincischio erudito: sempre trasparente, ariosa, la compresenza di comico e drammatico si realizza in modo magistrale.
Ancora nessuno, neppure Nicolai Gedda, aveva mai risolto la problematica quadratura del cerchio costituita dalla diabolica scrittura vocale del protagonista così come riesce a Michael Spyres: centri robustissimi, facilità sbalorditiva di schizzare all’acuto (un Re bemolle di luminosità abbagliante, nel duetto con Teresa), gravi bronzei e ricchi d’armonici, musicalità strumentale che ha sempre ragione delle infernali modulazioni tonali e ritmiche, spesso per giunta su agogiche vertiginose, di cui Berlioz infarcisce una di quelle parti che verrebbe fatto pensare siano scritte apposta per non farle riuscire. Ma soprattutto, il fraseggio di Spyres, possibile appunto perché nessuna delle trappole vocali lo impensierisce costringendolo a distogliersene, è una meraviglia di ardore (un duetto con Teresa appassionatissimo), di pensosa nobiltà (mai ascoltata così, la sublime “Sur le monts les plus sauvages”), di rapinosa sensualità, di spumeggiante vitalità. Domina il cast, ovvio: ma la Teresa di Sophia Burgos ha una linea immacolata e luminosa, ricca d’accenti spigliati; Lionel Lhote non riesce – come d’altronde non è riuscito ad alcuno – a far dimenticare il Fieramosca di Laurent Naouri, però il difficile personaggio lo delinea sufficientemente bene; Maurizio Muraro  forse eccede un po’ nel caricaturare Balducci, ma riesce molto comunicativo; Adéle Charvet ha tutto lo spirito e la verve necessari per Ascanio; e il Papa di Tareq Nazmi, così casalingo in quella vestina gialla e pianelle ai piedi, è uno spasso. Ma a proposito di spasso. All’ultimo, come si sa, emerge dalla fornace tra fumo e scintille il Perseo di Cellini, che nessuno può non conoscere: qui vien su dal fondo, e hanno avuto l’idea di presentare non una statua bensì un uomo in opportuna posa, tutto pittato di color oro per fingere il bronzo; tutto bene, salvo che la Pudeur ha imposto un castigato costumino sulle pudenda…. l’antico Braghettone di michelangiolesca memoria è ancora tra noi. Risorto nientemeno che a Parigi, mon Dieu!
Elvio Giudici

 

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299 Aprile 2024
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