Ciaikovskij – Eugenio Onegin

interpreti A. Rucinski, K. Opolais, D. Korchak, G. Groissböck
direttore Omer Meir Wellber
orchestra Generalitat Valenciana
regia Marius Trelinski
regia video Tiziano mancini
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
2 dvd CMajor 712408

onegin.maior

Produzione di quelle che si suole chiamare minimaliste: scena vuota, fondale che passa attraverso molteplici colori, ovviamente simbolici nella loro insistita sgradevolezza; pochissimi elementi scenici che pagano anch’essi un pesante debito a un simbolismo che vorrebbe essere intellettuale ma intellettualoide lo definisce meglio.
Sull’introduzione orchestrale, un uomo anziano, calvo, faccia pittata di bianco, vestito a giacca e guanti entrambi bianchi, claudicante con bastone, percorre lentamente la passerella che gira attorno all’orchestra, arrestandosi davanti a una mela che raccoglie e porta alle labbra. D’accordo, ci arriviamo: Onegin vecchio che medita sul passato. Meditazione d’incerto confine con l’incubo-chic. Grande ombra a forma d’albero sullo sfondo. Chilometrica tavola con tovaglia candida coperta da ordinatissima catasta di mele rosse che Onegin vecchio guarda con sottolineato trasporto: e certo, “la felicità era così vicina, così vicina”, chissà quanta cotognata avremmo potuto mangiare se le cose fossero state diverse…
L’Onegin-cataplasma dilaga ovunque, con gesti solo raramente chiari. Tatiana (che non sorride mai, ma proprio mai, nemmeno per il famigerato “attimino”) riceve il foglio da lui, tra un rotolarsi e l’altro sulla scena buia e interamente vuota, con lui s’allaccia in contorsioni varie e viene quasi strangolata allorché si trova per lunghi secondi il bastone stretto sulla gola dal candido Nosferatu che le sta dietro. La festa dalla Larina è popolata da gente con maschere zoomorfe tipo alligatore, indossata pure dal cataplasma, che copre gli occhi di Tatiana con una benda nera. La festa di San Pietroburgo ha invece un’enorme freccia rossa sulle ventitré con punta rivolta verso il basso, e le invitate che scendono da una ripida scala di metallo con parrucche a torre di Pisa e fasciati in abito anni Venti. Quiz di soluzione multipla (che a teatro equivalgono a una non-soluzione, prodromo sicuro d’un non-teatro) s’alternano a getto continuo a soluzioni da oratorio in crisi esistenziale, come Lenski che compare dalla Larina con un grammofono a tromba dorato. Tutto così: deprimente.
Ho sempre stimato molto Wellber, ma qui no: solito timore di sviare il rischio del caramello irrigidendo il flusso orchestrale in oscillazioni agogiche schizoidi (e assai faticose per il canto), limitando dinamica e colori, con allargamenti melodici repentini e così bombastici nel loro rombar d’ottoni, da finire col far rientrare dalla finestra il caramello messo alla porta. Rientra nel capitolo del radical-chic anche la decisione d’attenersi alla prima versione dell’opera, quella presentata la prima volta al Conservatorio, priva del coro dei contadini e della Scozzese.
Nel cast, la Opolais è più bella che mai e brava come sempre, ma un po’ meno di sempre: qualche suono stridulo, uno zinzino d’enfasi di troppo, una tal quale rigidità a minare la linea comunque opulenta e in linea con la recitazione al solito strepitosa, sia o no convinta dell’impianto scenico. Il migliore di tutti è però Dimitri Korchak: da tempo la sublime aria di Lenski non  la si ascoltava con  tale perfetto mix di delicatezza, smarrimento e afflato poetico. In linea con l’onnipresente cataplasma, l’Onegin di Artur Rucinski ha voce flebile e senile, povera d’armonici al centro e sforzatissima in alto; anonimo il Gremin  dell’austriaco Gunther Groissböck, e decorose le parti di fianco.
Elvio Giudici

 

 

 

 

 

 


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299 Aprile 2024
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