Ciaikovskij – Eugenio Onegin

[interpreti] P. Mattei, A. Samuil, J. Kaiser, F. Furlanetto
[direttore] Daniel Barenboim
[orchestra] Wiener Philharmoniker
[regia] Andrea Breth
[regia video] Brian Large
[formato] 16:9
[sottotitoli] Ing., Fr., Ted., Sp., Cin.
[2 dvd] Dg 0734434

Palcoscenico rotante diviso in spicchi che, mutando fuori scena quanto vi sta sopra (campi di grano, radura boschiva, interni, decine d’operaie intente alla macchina da cucire), permettono uno scorrere narrativo privo di soluzione di continuità. Anni Cinquanta. Alcool a fiumi. Abulia generale nella quale convergono “l’inimmaginabile noia russa” e la mancanza di stimoli d’una vita programmata – e spiata – dall’alto. Dove il vecchio è improduttivo e quindi disprezzato: la Nutrice, già trattata da serva incapace dalla Larina, al termine della scena della lettera, quando Tatiana entra ormai nell’età adulta, s’adagia sorridente nella fossa che nel bosco le ha scavato il nipote; e Triquet è ridicolizzato dai volgarissimi invitati alla festa, preoccupati solo di rimediare una sveltina tra una mangiata e soprattutto una bevuta. Dove i nuovi ricchi avanzano tra arroganza corruzione e servilismo: mai vista una festa sanpietroburghese così dura, alienante, sfacciata; a rendersene conto è solo Gremin, che proprio nel confronto con tale società assume personalità ancora più forte. Dove la mancanza d’ogni intimità è forse la peggior violenza: la camera di Tatiana un cubo di vetro, in cui seduta per terra lei batte con rabbia i tasti della sua portatile; ha scandalizzato tante anime belle, una lettera così, e invece solitudine, ansia d’evasione, oppressione familiare e sociale, ingenuità sognatrice venata di amara consapevolezza della sua impossibilità, mai erano emersi così nitidi e tragici. Dove perfino la voglia di fuggire di Onegin (che dopo il duello se ne va senza uno sguardo all’amico morto; i rimorsi arrivano sempre dopo) si rivela virtuale, bloccato com’è sempre – nei diversi postludi – su di una poltrona da cui guarda la televisione trasmettere immagini di rotaie in corsa entro una piatta e innevata immensità. In totale sinergia col magnifico spettacolo di Andrea Breth (artefice d’una recitazione sulla quale evidente è l’impronta di chi ha diretto prima la Schaubühne di Berlino e ora il Burgtheater di Vienna), la direzione di Barenboim è la migliore mai ascoltata: ampia ma trasparentissima, dinamica e ritmo quali energie pulsanti d’un arco narrativo che può così permettersi indugi altrimenti impensabili senza rilasciarsi mai, al contrario ricevendo impulso proprio là dove sembrerebbe sfilacciarsi in indugi contemplativi che invece accumulano tensione per scaricarla di colpo su climax la cui perfetta individuazione è spia infallibile della grande sensibilità teatrale d’un grandissimo musicista. Cast eccezionale in scena, discontinuo invece (troppo) localmente. Voce filiforme non tanto bella, priva di gravi e con acuti stretti stretti, Anna Samuil costruisce Tatiana solo con l’accento; Joseph Kaiser è un Lensky commoventissimo nel fraseggio, lodevolmente prodigo di piani che abbisognerebbero tuttavia d’appoggio più solido e qua e là proprio d’appoggiarsi da qualche parte; grande Onegin è ancora una volta Peter Mattei, gli acuti del quale più di altre volte paiono però ossidati e bisognosi di spinta; il Gremin di Ferruccio Furlanetto ha diverse zone opache, ma le illumina un accento sensazionale.

Elvio Giudici


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298 Marzo 2024
Classic Voice