Enrico Careri – Sulla genesi della creazione artistica. Una prospettiva musicale

editore Libreria Musicale Italiana
pagine 187
euro 18

 

Materia è parola che viene dal latino, dove in principio significa la parte interna (mater) del tronco di un albero, ch’era il materiale di costruzione nei tempi arcaici. Anche in greco la parola ὕλη, hýle, significa legno, selva – la stessa radice della nostra parola! – materia, come in inglese wood è legno, bosco. Aristotele, e poi la scolastica, la contrappongo alla forma, εἴδος, eídos (pronuncia éidos), forma, anche in latino. La materia è dichiarata potenza, potentia, δύναμις , dýnamis, contrapposta all’atto, ἐνέργεια, enérgheia, actus. Importante: logicamente, l’atto precede la potenza e la forma la materia. Ma al di là del linguaggio filosofico, Dante ci dice qui un’esperienza ch’è comune a tutti gli artisti: la resistenza della “materia”, dell’oggetto, all’idea che l’artista vuole realizzare. È nell’intervallo tra l’intenzione e l’opera finita che si colloca l’azione dell’artista, il suo fare. Su questo intervallo vuole riflettere Enrico Careri. Giustamente ricusa tutti i programmi, le ideologie, i messaggi che certi critici, e certi storici dell’arte, vogliono leggere nell’opera di cui parlano o scrivono. Spesso l’artista non lo sa. E anche quando lo sa spesso l’opera finisce col dire altro. Il romanticismo, prima, e l’idealismo, soprattutto quello italiano di Croce, poi, hanno caricato l’opera d’intenzioni e di significati che non le appartengono. Non parliamo poi di ciò che la musica “esprimerebbe”. Già Hansilck, nel suo Del bello musicale, dichiara che la musica non esprime altro che sé stessa. Era stato più chiaro Hegel quando dice che l’architettura e la musica hanno in comune il fatto che il contenuto dell’opera è la sua forma. Ma ciò che nell’architettura e nella musica è evidente, per Nieztsche è in realtà la natura di qualsiasi opera d’arte: “Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano ‘forma’ come contenuto, come ‘la cosa stessa’. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita” (Frammenti Postumi dell’epoca del Caso Wagner). Facciamo un esempio: che cosa “esprime” il primo preludio, in Do maggiore, del primo libro del Clavicembalo Ben Temperato di Bach? Evidentemente non è individuabile nessun sentimento. O, al massimo, potrebbe essere la gioia di realizzare il campo armonico di Do maggiore. Su questo punto, dunque, Careri ha sacrosanta ragione. E sono preziose tutte le testimonianze raccolte da parte degli artisti che manifestano appunto l’assenza di un’intenzione precisa quando hanno lavorato all’opera. Ma ciò non toglie che esistano opere minuziosamente programmate, calcolate capillarmente, si direbbe parola per parola, sillaba per sillaba, che so, appunto la Divina Commedia. O, in musica, L’arte della fuga. In pittura, Las Meninas di Velázquez.  Allora? Allora: primo, non si può generalizzare, bisogna indagare caso per caso; due, una cosa è il processo psicologico attraverso il quale si attua l’opera, un’altra il carattere e il significato intrinseco dell’opera, magari addirittura ignoti al suo creatore. Pertanto il libro appare come un’interessante, e giusta, indagine psicologica che scava nei processi attraverso cui nasce un’opera, e sgombra, finalmente, il terreno dai troppi equivoci storicistici, ideologici, e chi più ne ha ne metta, che vi si erano accumulati sopra. Ma non ci dice niente sull’opera. Su questa, storici, critici, filosofi hanno tutto il diritto di disquisire. E anche gli stessi artisti, quando si trovano ad essere teorici della propria arte.
Dino Villatico

 

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