Pulcini racconta Sostakovic

A 50 anni dalla scomparsa, un secolo di guerra e pace con il compositore sovietico e il suo biografo

Il cinquantesimo della morte di Dmitrij Sostakovic coincide con l’ottantesimo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Due anniversari che chiamano in causa direttamente il compositore simbolo del Novecento, di cui Franco Pulcini è il massimo studioso italiano, nonché biografo.
Professore, partiamo proprio dal 1988, anno di uscita del suo fondamentale libro su Sostakovic. L’Urss è ancora in piedi, il compositore è morto da appena 13 anni e di lui si conosce ancora poco. Ci può raccontare la gestazione di quel lavoro?
“Una domanda simile se la sono fatta anche i musicologi sovietici, alcuni dei quali mi hanno citato nei loro libri. Il mio cognome in cirillico mi fa un po’ ridere. Marina Sabinina, autrice di uno dei saggi più importanti sulle sinfonie di S. (il quale la conosceva, e a volte la citava), mi ha scritto un biglietto in cui si chiedeva come era possibile che un giovane italiano fosse stato in grado di comprendere così bene un autore di un ambiente tanto lontano e riuscire a descrivere l’arte di un compositore tutto da decifrare nelle sue simulazioni amletiche. La vedova del musicista, Irina Antonovna, era molto preoccupata che uscisse un libro su suo marito di un musicologo molto giovane e con tutta probabilità talmente inesperto da interpretarlo male, come allora facevano molti critici sulla carta stampata. Poi gliene tradussero al volo alcune parti e venne a Roma per la presentazione, elogiandolo. Mi chiamava familiarmente Franco. La facevo tanto ridere quando le raccontavo delle corbellerie che si leggevano nelle pubblicazioni inglesi, tipo che lui aveva progettato un’improbabile opera lirica intitolata Sunday (in russo per ‘domenica’ e ‘Resurrezione’ si usa la stessa parola, voskresen’e, solo che il romanzo di Tolstoj si scrive Voskresenie, con la ‘i’ al posto del ‘segno molle’)”.
Come ha “capito” la sua musica?
“Forse capisco S., almeno a modo mio, perché ho avvicinato il suo mondo. Da ragazzino, a Torino, mio padre si serviva di un anziano giardiniere altoatesino di lingua tedesca che aveva fatto la campagna di Russia nella Wehrmacht e, fatto prigioniero dall’Armata Rossa, era stato condannato per crimini di guerra a venticinque anni di lavori forzati in un Gulag, ma poi liberato dopo sette. Mi facevo raccontare di quell’esperienza. Diceva, curiosamente: la Siberia, bellissima, aria pura impagabile, natura meravigliosa; il freddo, ci si copriva; il lavoro in miniera, un po’ scomodo, ma ce la cavavamo; c’era anche da divertirsi, con accanto un campo femminile e internate russe piuttosto intraprendenti; guardiani e secondini, normali, giusti, abbastanza brava gente, anche loro tutti ex condannati; lo hanno anche pagato per il lavoro svolto. Un Gulag semi-idilliaco! Unico problema, su cui esercitare la massima attenzione, persino in dialetto sud-tirolese: ‘ mai protestare o parlare di politica’, ‘mai lasciarsi sfuggire mezza parola che potesse essere interpretata contro di te’, ‘diffidare anche dei migliori amici’! Cominciai a capire quel mondo senza libertà. Lo ritrovai nella Tredicesima sinfonia, quando si canta del terrore di dire qualcosa contro il regime persino nel sonno, perché anche tua moglie potrebbe un giorno denunciarti”.
Ha frequentato quelli che un tempo chiamavano i “Paesi dell’est”?
“Nei primi anni ‘70, per studiare Janácek, vissi oltre un anno nella Cecoslovacchia occupata dai russi pochi anni prima. Ci tornai di continuo. E l’oppressione del socialismo reale sugli intellettuali e gli artisti mi era divenuta abbastanza chiara, anche se, con qualche cautela, si riusciva a sopravvivere. Ricordo che, mentre ero lì, il mio insegnante Massimo Mila mi scriveva raccomandandosi di non combinare pasticci e fare molta attenzione: lui ne aveva saputo qualcosa con la prigione durante il fascismo. Però si compiaceva con Luigi Nono che vi fossero audaci universitari che, per ragioni musicali, varcavano la cortina di ferro, indifferenti ai rischi della politica. Da quella parte dell’Europa, se uno sconosciuto ti avvicinava con una scusa chiedendoti cosa pensavi dei fascisti in Italia, era meglio dire che eri contrario, specie se mettevano bombe: se ne andavano via soddisfatti di non dover redigere circostanziate denunce, ma un semplice rapporto. Avevo iniziato già in Cecoslovacchia a raccogliere partiture e materiali musicologici anche su S., che spesso svendevano perché nessuno li comprava a Praga o a Brno, in odio degli occupanti. Sono stato alcune volte in Russia, ma anche nei Paesi Baltici, prima di scrivere quella biografia critica, e ricordo di essere stato nuovamente avvicinato, durante un’estate a Mosca nei primissimi anni Ottanta, questa volta da una disinvolta informatrice di bell’aspetto, dopo una telefonata di cortesia al corrispondente dell’’Unità’ Giulietto Chiesa. Non tutto il Kgb vien per nuocere… Quell’ambiente di sospetto, reticenza e necessaria prudenza, mi era divenuto familiare e di lì a comprendere che la musica di S. aveva dei doppi fondi tutti da interpretare, il passo fu breve. Devo dire che sono arrivato alla comprensione della sua musica nello stesso modo dei musicofili russi: ascoltando con attenzione i cenni criptici, le giravolte linguistiche, i messaggi in codice, di cui si sostanzia un dettato musicale tutto da tradurre, tanto nelle macroforme, quanto nei particolari. In fin dei conti, onnipresenti cifrature a parte, lui sviluppa una ‘polistilistica’ non dissimile da quella di Mozart, che maneggiava stili e maschere proprio come S., e sapeva mescolare shakespearianamente tragico, comico, malinconico e ridanciano entro forme di classica bellezza. Diciamo inoltre che, per capire S., bisogna aver letto con attenzione l’Amleto”.
Com’era considerato Sostakovic a fine anni ‘80 in un’Italia che al voto esprimeva 10 milioni di voti al Pci?

(…)

L’articolo completo di Luca Baccolini continua nel numero 312 di “Classic Voice”

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312 Maggio 2025
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