Purcell – The Indian Queen

interpreti J. Bullock, V. Yi, N. Koutcher, C. Dumaux, N. Stewart, M. Carrero
direttore Teodor Currentzis 
orchestra Musica Aeterna
regia Peter Sellars
regia video Peter Sellars
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted.
dvd e Blu-Ray Sony 88875049529 
prezzi 20 e 25,60

 

indianQueen

Ultimo lavoro intrapreso dal trentaseienne Purcell, restò incompiuto alla sua morte. In esso, fioriva ulteriormente quella sorta d’innesto fra teatro francese col suo chiaro intento propagandistico tenuamente celato sotto veli allegorico-filosofici tanto convoluti quanto fascinosi (nazionalismo strettamente intrecciato alla legittimazione del potere del Re che, proclamando l’esser lui benedetto da Dio, ne ricava suggello inviolabile) e teatro inglese che, pur perseguendo intenti simili, li svolgeva non davanti alla Corte bensì al popolo (era la Corte, ad andare al Globe, non la compagnia del Globe a esibirsi a Corte). Il gusto parigino per uno spettacolo dominato per intero dalla musica (cantata o danzata che fosse), fu pertanto tentato, a Londra, ma non ebbe seguito. Troppo congenita era l’avversione inglese a un’eliminazione drastica della parola “detta”: per un po’ sopportata solo grazie all’autorità di Händel, ma comunque non senza forti contrasti. Grazie alla disponibilità di Purcell, il poeta John Dryden s’illuse di poter fondare un organismo teatrale che mantenesse l’intento celebrativo della nazione inglese (già codificato con successo al Globe e alle istituzioni similari ricostruite e moltiplicate nella Restaurazione) e anzi lo potenziasse sul modello francese tutto-musica. L’ambizioso progetto s’arenò dopo appena un pugno d’anni. Sufficienti tuttavia a dar luogo ai capolavori di Purcell da una parte, e dall’altra alla nascita di quella istituzione tutta inglese che fu la ballad-opera, germinata dall’antica commistione tra parola e musica già presente nel play elisabettiano, dove nacque e si consolidò l’altro nucleo teatrale destinato al grande futuro della commedia musicale o musical che dir si voglia: il masque, fusione di parola, canto e danza sul modello dell’opera-balletto francese. In esso, tuttavia, il valore del verso non cedette mai a quello del canto per giocarvi piuttosto ruolo paritetico.
Partendo da tali premesse, e tenendo presente come il rappresentare il torso purcelliano (quantunque sublime ne sia la fattura) comporti grossi problemi in aggiunta all’essere oggi difficilmente digeribili trama e personaggi del libretto di Dryden: Sellars conserva intatti i circa quaranta minuti di musica di Purcell e i relativi versi di Dryden, ma li allaccia a musiche e versi – un po’ cambiati, questi – di numerosissime altre composizioni di Purcell (sacre e profane, vocali e strumentali), tutti intercalati da interventi parlati d’una Narratrice che recita brani tratti da un racconto della scrittrice nicaraguegna contemporanea Rosario Aguilar, tradotto in inglese (The lost chronicles of Terra Firma) da Edward Waters Hood. La lotta tra gli Atzechi e gli Incas diventa la Conquista spagnola e i relativi massacri perpetrati nei confronti degli Aztechi: la regina indiana è dunque la principessa Teculihuatzin che per amore ma anche per calcolo politico si converte al cattolicesimo facendosi chiamare Donna Luisa e sposa Don Pedro del Alvarado, con l’utopico intento di fondere la sua cultura a quella spagnola ritenuta superiore. A vero dire, pur tenuto conto dell’inevitabile diminutio d’una traduzione, non mi pare che detto testo e relativa sua campagna femminista sia chissà poi che (fondamentale, comunque, la presenza dei sottotitoli – specie quelli riferiti a composizioni poco eseguite e conosciute – che consentono di seguire puntualmente una vicenda non sempre chiarissima); mentre di forte suggestione è l’atmosfera narrativa che Sellars sa creare all’interno della scenografia disegnata dal celebre pittore di murales losangeleno Gronk, alternando magistralmente gestualità e coreografia.
La direzione di Currentzis è strepitosa per ricchezza di colori, intensità melodica, sagace impiego del vibrato nell’ambito d’una ricerca di suono autentico (da cui diversi momenti memorabili nel rendere certi audaci cromatismi di Purcell) che evita ogni sia pur minimo calligrafismo filologico in nome d’una espressività portata al calor bianco tanto nei momenti convulsi quanto in talune oasi di lancinante elegia. Cast praticamente perfetto sotto il duplice – e indispensabile, in spettacoli siffatti – profilo scenico e vocale.
Elvio Giudici

 

 

 


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