Dieci anni senza Abbado

Intervista esclusiva al figlio Daniele che lo chiamava "Claudio"

Dieci anni – tanto abbiamo vissuto dopo la morte di Claudio Abbado, avvenuta il 20 gennaio 2014 nella sua casa di Bologna – è un tempo abbastanza lungo per guardare in prospettiva l’eredità di un artista. Nel suo caso, però, parlare solo di musica sarebbe un limite. Lo ha ribadito anche il figlio Daniele Abbado, 65 anni, primogenito di Claudio, tra i protagonisti della giornata “Dirigere il futuro. Claudio Abbado tra utopia e concretezza” che il 3 febbraio in Sala Petrassi a Roma rappresenterà l’affioramento pubblico (aperto a tutti) di un lungo percorso organizzato dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: nell’ottobre del 2023 l’istituzione romana guidata da Michele dall’Ongaro e la Fondazione Abbado hanno riunito senza clamore musicisti, storici della musica, filosofi e insegnanti, assieme a personalità attive nel campo della formazione musicale, della tutela dell’ambiente, della musica intesa come forma di aiuto in situazioni di disagio e dolore, per riflettere sui temi posti dal pensiero, ma soprattutto dall’agire, di Abbado.
Daniele Abbado, suo padre come uomo d’azione. Ci aiuti a inquadrarlo in questa prospettiva.
“Di Claudio musicista si è sempre parlato. C’è una fondazione intitolata a lui, con lo scopo di salvaguardare il suo archivio musicale. Missione compiuta: tutte le partiture, gli appunti e i materiali autografi sono confluiti alla Biblioteca di Stato di Berlino, dove sono consultabili e fruibili a tutti, anche in versione digitale. Non volevamo che il suo lascito finisse in un museo o in caveau. Il legame con Berlino, poi, è certificato dalla storia: i Berliner Philharmoniker sono l’orchestra con cui Claudio ha lavorato di più in assoluto, con un rapporto che si è mantenuto anche dopo la malattia. Arrivati a questo punto, però, la domanda è stata: cos’ha animato davvero la sua vita? La risposta secondo me è questa: una progettualità incontenibile, segnata da una visione. Quella di rendere la musica un bene fruibile a tutti”.
Partiamo dai temi: Abbado e la formazione.
“Il primo pensiero va al Sistema venezuelano: il paese che abbiamo conosciuto non c’è più, è in crisi, ma Abreu – con cui Claudio ha collaborato a lungo – era riuscito a istituire il Sistema come dispositivo di legge. Educare i bambini alla musica non era solo un fatto artistico, ma sociale. Persino le banche che hanno aiutato con i loro prestiti a consolidare il progetto hanno riconosciuto che la partecipazione al programma riduceva sensibilmente la delinquenza giovanile e assicurava un ritorno in termini economici. Ora il Sistema è diffuso in tutto il mondo. Italia compresa”.
Abbado e l’ambiente.
“Oggi, più che in passato, l’ambiente è un tema di ordine quotidiano e globale. Claudio aveva intuito un concetto fondamentale: la giustizia ambientale, senza la quale non ci può essere nemmeno giustizia sociale. Lo fece capire in maniera eclatante e simbolica quando chiese di piantare 90.000 alberi come cachet per tornare a dirigere alla Scala”.
Le sue orchestre.
“L’aspetto che più mi colpisce non è solo la quantità di orchestre fondate, direttamente o indirettamente. Piuttosto il fatto che siano ancora tutte in attività, alcune addirittura con grandi sviluppi, come la Mahler Jugendorchester”.
Un ragazzo nato negli anni Duemila oggi non conoscerebbe Abbado, se non attraverso i dischi. Come si potrebbe raccontare a un millennial di oggi l’orchestra in tour nelle fabbriche operaie?
“Il mondo è cambiato, è vero. Rivedere le foto con i musicisti in una fabbrica Necchi fa impressione. D’altra parte, però, la musica viaggia per canali suoi, non tangibili. Abbado per un giovane di oggi potrebbe essere come per noi fu la riscoperta di un personaggio come Toscanini, che non fu solo il direttore ma anche l’antifascista, il fondatore di orchestre, il protagonista della storica riapertura della Scala dopo la guerra. La cultura non si esaurisce nel proprio tempo. L’opera ne sa sempre più dell’autore. Certo l’emozione della sala da concerto non tornerà più, ma in realtà la sala non era l’unico luogo in cui agiva Claudio. Pensiamo agli ospedali oncologici, alle carceri, alle prove aperte per gli studenti”.
I suoi concerti erano accompagnati e seguiti spesso da momenti di concentrazione assoluti da parte del pubblico.
“Sì, si creava quasi sempre un’alchimia particolare tra esecutori e sala. Ricordo che le prove di Claudio potevano essere poco entusiasmanti, per non dire noiose. In realtà i musicisti arrivavano al concerto con una fiducia reciproca, una conoscenza totale e perfezionata del pezzo e delle intenzioni, come se avessero riservato tutta l’energia per il momento performativo”.
Cosa ricorda dei giorni dell’addio, dieci anni fa?
“Il commiato è stato molto ‘claudiesco’. Ricordo la fila di persone fino a notte fonda in Santo Stefano, a Bologna. Così, avanti per tre giorni. Ogni tanto le porte di una delle sette chiese… ” (l’intervista di Luca Baccolini a Daniele Abbado continua sul numero 296 di “Classic Voice”)

 

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