Macbeth alla Scala, la recensione di Alberto Mattioli

Direzione "personale" di Chailly, Netrebko in recupero, Salsi sugli scudi, regia senza idea forte

MILANO – Commentare la prima della Scala è sempre complicato. La pressione mediatica è fortissima e divagante, le attese spropositate, il “verdetto” di un pubblico che sa di opera quanto io di fisica nucleare semplicemente privo di senso, il contorno più importante del piatto forte. L’Evento, come si dice in cretinese, finisce per rimpicciolire lo spettacolo, trasformandolo in un accessorio della Gran serata, annegandolo in una brodaglia di politica, di mondanità, di chi c’è chi non c’è e com’è vestito, di spropositi di “formaggiaie” (cit. l’Arbasino ottimo massimo) e asinerie di politici, di impressioni prêt-à-porter quando avremmo invece tanto bisogno di qualcuno prêt-à-penser. Perfino danneggiandolo, lo spettacolo. Infatti il “Macbeth” della Scala è andato musicalmente in crescendo, e forse solo a un’emozione che diventa fatalmente tensione si può attribuire, per esempio, una cavatina della Lady di un livello assai inferiore a quello cui ci ha abituati, o forse viziati, Anna Netrebko.

Allora, al netto delle ovazioni per Mattarella e delle mascherine, dei fiori griffati Armani e della gonna di D’Agostino, di Carlucci & Vespa (e ahinoi anche di chi scrive) imperversanti in televisione, resta da capire come fosse davvero questa prima. A me sembra soprattutto il “Macbeth” di Riccardo Chailly, che ha fatto un gran lavoro sui colori dell’orchestra, sulle dinamiche, sulla concertazione. È una direzione molto “sua”, nel senso che è calibratissima, studiatissima, pensatissima, ma non diventa mai calligrafica. I tempi sono di conseguenza piuttosto lenti, ma mai slentati, anche se non sempre facili da reggere per i cantanti. È un “Macbeth” che privilegia i toni sommessi, che sceglie spesso il sussurro, il racconto di un povero idiota che preferisce non urlare. Si può essere d’accordo o meno. E tuttavia, primo, chi ha detto che un mormorio non possa risultare più agghiacciante di uno strillo? E, secondo, per negare l’eccezionale qualità del suono orchestrale bisogna davvero essere in malafede oppure sordi (però molti che l’hanno visto in tivù non ne sono convinti, quindi ho il forte sospetto che la resa sonora fosse quella delle migliori tradizioni Rai: pessima). Bene anche il Coro, a parte un attacco un po’ avventuroso delle donne all’inizio del terzo atto, ed è una notizia importante perché era la prima “prima” del suo nuovo maestro, Alberto Malazzi.

Sulla compagnia di canto la Scala è andata sul sicuro. Per Macduff e Banco, Francesco Meli e Ildar Abdrazakov sono un lusso quasi eccessivo, proprio da quei tempi d’oro della “lirica” con cui continua a sfracellarci i cabasisi la Caffariello & co. I comprimari sono eccellenti, con menzione d’onore per per il Malcolm squillante di Iván Ayón Rivas e il do acuto di Chiara Isotton, indispensabile nel finale primo dato che quello di Netrebko non è pervenuto. Ecco, appunto, Annuška nostra. Ha iniziato male, come detto, ma ha poi proseguito bene e talvolta benissimo, senza paura di “fare la diva” in nome di un malinteso minimalismo emozionale che oggi va forte. Notevole il duettone con lui, bellissima l’aria del secondo atto, magnetico il sonnambulismo cantato imbragata a sei metri di altezza, anche se il re bemolle mi è sembrato un po’ calante e aggiustato in corsa fino a risultare crescente. Bravissima poi in scena: nel terzo atto, ha pure ballato in sottoveste, e chi l’ha vista in tivù riferisce di certe sensazionali occhiate da cattiva a ventiquattro carati, fra la Regina di Biancaneve e Bette Davis. Sugli scudi Luca Salsi, che canta così bene da cantare “male”. Salsi, che è un cantante che studia (un ossimoro vivente), ha letto le lettere di Verdi e quindi ha capito che, in ogni sua opera in generale ma nel “Macbeth” in particolare, il Padre vuole un canto tutto sulla parola, anche a costo che canto non sia più. Salsi piega così il vocione a sottigliezze inaudite, cerca colori aspri, cupi, soffocati (puntualmente rimbalzati dall’orchestra, giusto per ribadire che la concertazione è al livello della direzione), arriva fino alle soglie del declamato e del parlato. Ed è un Macbetto di caratura storica, dei tanti cantati da Salsi sicuramente il più singolare.

Resta lo spettacolo di Davide Livermore e della sua squadra, puntualmente massacrati alla ribalta finale. Spettacolone, ovvio, con ponti mobili che vanno su e giù, ascensori che vanno giù e su, realtà aumentata, fiamme, video, videogiochi, citazioni cinematografiche, balletti non ballettistici: di tutto e di più, tecnicamente una goduria, il personale del palcoscenico della Scala (impeccabile) dovrebbe chiedere gli straordinari. I coniugi Macbetti sono due nouveux riches, ovviamente collezionisti di arte contemporanea senza capirci nulla ma perché fa status, che tentano il grande salto sul Potere, lei un po’ oligarca russa da gas naturale magnificamente prima vestita e poi svestita dal solito Gianluca Falaschi, lui più democristiano-rassicurante. Lei gli molla anche un bel ceffone quando lui inizia a dare i numeri nel banchetto (lo spettro di Banco è il faccione molto macho di Abdrazakov, quindi sciure e gay – i quattro quinti del pubblico – in visibilio). Bello anche il duello finale con Macduff, dove Meli e Salsi zompano meglio di due stunt-man. Resta il rebus di una regia dove mi sembra manchi un’idea davvero forte e di uno spettacolo che affastella citazioni senza coagularle in una visione univoca, insomma come certi regali di Natale dove l’involucro, il fiocco e la carta luccicante sono quasi meglio del contenuto. I buuu sono così arrivati sia dai coeurs simples che volevano i kilt sia da chi si aspettava una regia più tosta, e magari anche da chi pensa che quattro inaugurazioni di fila siano troppe e una certa ripetitività, quindi, inevitabile.
E tuttavia c’è un aspetto sul quale occorrerebbe riflettere, e che dimostra che Livermore non è un Pizzi del Duemila ma un vero intellettuale, dunque giustamente stimolante e disturbante. Piaccia o non piaccia (a me piace) la prima della Scala oggi è anche uno spettacolo televisivo. E bisogna tenerne conto. Ero in teatro e non so come fosse la regia tivù (molte precedenti catastrofi Rai inducono a temere), ma ho il forte sospetto che forse in video questa produzione sia più coinvolgente che in sala. Ora, che anche all’opera, perfino all’opera, si pensi alla contemporaneità come a un’opportunità e non come a una minaccia disturberà magari le care salme ma, credetemi, è l’unico modo di farla sopravvivere.

Alberto Mattioli

 

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