Non cancelliamo James Levine

Al bookshop del teatro lo hanno rimosso ma senza di lui il grande Met non sarebbe esistito

Ancora oggi Pavarotti si tende a ricordarlo più per quella gran schifezza dei concertoni pseudo-pop “Pavarotti and Friends” che per le qualità vocali (anche tecniche, ricordo; musicalità peculiare, forse, ma cavoli come sapeva cantare) per le quali resta uno dei massimi tenori del dopoguerra. E con James Levine, il concretissimo rischio è che adesso si parli di lui più come molestatore di giovani fanciulli che come colui cui il Metropolitan (prima l’orchestra, poi più faticosamente il coro) deve l’alto livello raggiunto dopo decenni di fuffa, documentatissima dalle registrazioni live. Gran scocciatura, ma parlarne bisogna ora che è morto il 9 marzo scorso in quella sorta di esilio che è stata la sua residenza a Palm Springs. Bisogna perché, francamente, è preclaro esempio sia dell’ipocrisia dell’establishment culturale che da sempre sapeva ma faceva finta di non vedere (e le difese poste in essere dalla forza dell’appartenenza ebraica non sono certo trascurabili), sia delle vere e proprie follie perpetrabili in nome del famigerato movimento #MeToo usato come bocca di fuoco per far finalmente fuori gente da troppo tempo nelle posizioni di comando. Un paio d’anni fa, se tu andavi al bookshop del Met e chiedevi una registrazione di James Levine, ti sentivi rispondere “Chi?”: e ti accorgevi che non era esposto manco uno degli innumerevoli cd e dvd incisi da lui con l’orchestra della casa, coi Wiener Philharmoniker, Boston Symphony eccetera. Se però insistevi, la commessa spariva nel retrobottega e ne sortiva con aria furtiva portandoti il disco della colpa, nascosto sì ma poi venduto giacché pecunia semper non olet.
Quindi sì, certo. A marzo del 2018 Levine è licenziato per “sexually abusive and harassing conduct”: un’inchiesta che pare abbia coinvolto circa 70 persone, partita da una denuncia (di cui diede notizia il New York Times) del violoncellista James Lestock che dopo la bellezza di quarant’anni –  nei quali aveva scritto una valanga di lettere affettuose al suo maestro – dichiara di essere stato costretto a ripetute masturbazioni quando aveva 17 anni, cosa che lo ha menomato psicologicamente. Non commento perché scadrei nel turpiloquio, specie ricordando come nell’ambiente musicale gay da sempre si sapesse quali erano le inclinazioni di Levine, quante volte si fosse mosso l’ufficio legale del Met, e quanto quindi avesse ragione l’interessato a querelare il Met per diffamazione e rottura ingiustificata di contratto, giungendo a un accordo della bellezza di 3 milioni e mezzo di dollari. Insomma ci riuscirono, a farlo fuori dal Metropolitan di cui fu la colonna portante per 47 anni e 2552 serate: dal giugno 1971 quando, a 29 anni, dirige senza nessuna prova Grace Bumbry e Franco Corelli in una matinée di Tosca cui assiste Allan Hughes del “New York Times”, che lo individua come “la maggior risorsa di cui potrebbe disporre il Met”. Due anni dopo diventa principal conductor, e in quello seguente – allorché Rafael Kubelik lascia – è nominato musical director: per diventare infine anche direttore artistico nel 1986.
Come dicevo, moltissime registrazioni live attestano la qualità di orchestra e coro del Met ante-Levine: miserando. Le non meno numerose registrazioni audio e video dell’era-Levine costituiscono invece l’evidenza del progressivo innalzamento d’un livello giunto a poter tranquillamente confrontarsi con quello di qualunque teatro europeo: merito esclusivo d’un musicista del tutto fuori dal comune.
Nasce a Cincinnati nel 1943, famiglia tutta di musicisti; comincia a studiare pianoforte a 5 anni, a 10 suona in pubblico il Primo Concerto di Mendelssohn con la Cincinnati Symphony, poi si perfeziona a New York alla Julliard con Rosina Lhevinne e al Marlboro Festival con Rudolf Serkin; inizia nel 1957 a studiare direzione d’orchestra e nel 1964, a Baltimora, l’ascolta George Szell che se lo porta come assistente a Cleveland per sei anni, dove riceve un imprinting direttoriale che sarà sempre riconoscibile e dove debutta nel 1967 dirigendo Don Juan di Strauss: ha ventiquattro anni, e di lì a poco inizia il sodalizio al Metropolitan col quale la sua carriera sostanzialmente s’identifica, a fianco dei sei anni (2004-2010) come direttore della Boston Symphony e degli altrettanti con la Munich Philharmonic, nonché delle numerose frequentazioni coi Wiener Philharmoniker e i Berliner Philharmoniker. Le voci maligne degli anni Settanta insinuavano che la lunga collaborazione degli ebrei Levine e Bernstein coi Wiener avesse come importante motivazione la necessità di emendarne la fama di sempre mantenute simpatie naziste, onde relativa difficoltà di vendita dei loro dischi negli Stati Uniti: vero o no che fosse, resta il fatto che quasi sempre di grandi incisioni si tratta, in un repertorio che specie nel caso di Levine è singolarmente ampio, riflesso del quanto mai significativo allargamento di repertorio da lui imposto al Metropolitan. Una delle pagine più esilaranti delle memorie di Rudolf Bing riguarda la sua visita a una delle più generose dame newyorkesi che usavano staccare un assegno destinato a coprire le spese d’una nuova produzione, e che la buona creanza imponeva fosse ritirato dal sovrintendente in persona: l’anno in cui Bing osò proporre Moses und Aaron, la dama in questione l’assegno lo firmò, ma nel darglielo puntò il ditino ammonendo “e lavori così…mai più!!”. Levine riuscì ad avere lo stesso gli indispensabili apporti privati al budget del Met che s’aggira sui trecento milioni di dollari, pur imponendone una frequentazione se non  assidua quantomeno non episodica di titoli quali Pelléas, Moses und Aaron, Erwartung, Castello del duca Barbablù, Troyens, Benvenuto Cellini, Rake’s progress, Wozzeck e Lulu nella versione in tre atti: titoli le sue interpretazioni dei quali stanno tra quelle di riferimento, testimonianza ulteriore del livello cui era riuscito a portare l’orchestra.
Dovessi scegliere un termine soltanto per definire la personalità artistica di Levine, non esiterei: teatro. Un’innata capacità di raccontare, di mantenere l’arco narrativo sempre in tensione non solo nei più ovvi momenti di esplosione tellurica o di apertura melodica: momenti che ricevevano il loro impatto proprio dalla capacità di farne terminali d’un processo narrativo mantenuto sempre “in avanti” anche negli indugi più elegiaci. Ecco perché Levine è stato uno dei maggiori interpreti verdiani moderni. Chiarezza mai didascalica. Nessuna caduta nel bozzettismo. Tensione costante. Eccezionale comprensione dell’organo vocale e quindi eccezionale accompagnatore al canto, che lo rendeva direttore amatissimo da tutti i maggiori cantanti dell’epoca trascorsa, tra i quali le personalità diciamo così difficili abbondavano molto più di adesso.
Tutte le sue incisioni ufficiali e live di Verdi sono altrettante pietre miliari, favorite anche da cast per lo più azzeccati: e Puccini è di livello quasi analogo. Le interpretazioni mozartiane soffrono invece di scelte vocali più interlocutorie, quantunque almeno una di esse, Idomeneo, sia di conoscenza imprescindibile, non foss’altro perché Levine riuscì a convincere Pavarotti a impersonare il protagonista. Da quando Levine fu chiamato da Wolfgang Wagner a Bayreuth nel 1982 per Parsifal, Wagner ha costituito una colonna portante nel suo repertorio. Qui magari possiamo discutere un po’ di più, e personalmente non milito tra gli estimatori massimi delle sue interpretazioni, fermo però restando che prima di lui il livello wagneriano del Met era esclusivo appannaggio delle voci, mentre solo con lui l’orchestra assume il ruolo che le compete: e che consente direzioni straussiane tra le più cospicue del panorama discografico. Da ultimo ma non in ultimo, è solo grazie a Levine che il Met – in questo buon ultimo tra i teatri americani – ha accolto nelle sue locandine autori contemporanei: John Corigliano, Philip Glass, Carlisle Floyd, Tan Dun, Tobias Picker, John Harbison, Charles Wuorinen; svolgendo ruolo culturale ben superiore a quello riscontrabile in Europa, dove i bidelli di Darmstadt continuano imperterriti e impuniti a dettar legge coi relativi diktat d’esclusione.
Forse avrebbe dovuto considerare un ritiro volontario, Levine, allorché nei primi anni del nuovo millennio il tremore connesso al Parkinson cominciò a farsi molto evidente suscitando malumori (beninteso anonimi) nell’orchestra e financo nei cast vocali; per non parlare del lungo ritiro susseguente all’operazione di rimozione d’un tumore al rene nel 2008, quando fu costretto alla sedia a rotelle. Ma quello che è adesso il Met lo è grazie a James Levine: cara signorina del bookshop, il suo “Chi?” lo riservi ad altri; e rimetta tutte le sue incisioni audio e video nei posti d’onore degli scaffali.

Elvio Giudici

 

 

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