Goebbels A House of Call My Imaginary Notebook

orchestra Ensemble Modern Orchestra
direttore Vimbayi Kaziboni
2 cd Ecm

È curioso che sotto un cognome così inquietante si muova da cinquant’anni uno dei musicisti più creativi e disallineati del libero pensiero. Heiner Goebbels (1953) è abituato a sorprendere, ma con A House of Call tocca un vertice che stupisce. Il titolo di questo grande pezzo in quattro capitoli e quindici quadri viene dal Finnegan’s Wake di Joyce: “A prolonged visit to a house of call”, dove la House of Call era, nell’Inghilterra dell’Ottocento, il luogo in cui gli artigiani potevano essere ingaggiati dai clienti.
La citazione – avverte Goebbels – sta vicina al roaratorio che diede il titolo al lavoro per radio di John Cage, che nel 1979 istituzionalizzava un suo metodo per generare un’opera musicale da un’opera letteraria. A House of Call inizia un Introitus in cui cita Répons. Dunque Cage e Boulez, ed è solo l’inizio di uno stream of consciousness che Goebbels manovra con sapienza, frutto di un’esperienza sconfinata nella multimedialità. A House of Call – dice Goebbels – è un “ciclo di richiami, invocazioni, preghiere, parole recitate, poesie e songs per grande orchestra. Ma non è l’orchestra che chiama”. Più di sessanta strumenti sono impegnati con l’eccezionale Ensemble Modern organicamente esteso sotto la guida di Vimbayi Kaziboni – impegno produttivo enorme per la Ecm. Ma non si ha mai la sensazione di trovarsi di fronte a una partitura (solo) sinfonica: gli strumenti sono piegati in un rapporto con la parola (recitata, bisbigliata, cantata) così mobile da sfuggire a ogni schema.
Heiner Müller, von Eichendorff, Samuel Beckett scorrono insieme a voci del mondo, che sfrigolano anche da vecchi fonografi come ne usava l’etnomusicologo Béla Bartók nei suoi viaggi: voci lontane, toccanti, ammonitive, nostalgiche, in memoria nella “fonografica collezione del mio notebook immaginario” (Goebbels).
Non meno e non meno varie sono le lingue suonate dagli strumenti, da Stravinskij al free jazz, in aggregazioni sempre diverse, dal ripieno d’orchestra al bisbiglio di un flauto. E più di tutto colpisce che una tale somma di diversità non cada mai nell’antologia.
Carlo Maria Cella


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