Carmen non decolla

Allo Sferisterio un'occasione mancata; non priva di momenti musicali stimolanti ma non continuativi

MACERATA – Ben venga Carmen senza folklore. Se c’è lo spirito dell’opéra-comique com’ha promesso, in accordo col direttore Francesco Lanzillotta, il regista Jacopo Spirei. Il progetto l’ha sprofondata nel mondo finto-gioioso dei famosi cabaret parigini. L’idea suggestiva da raccontare, coloratissima da realizzare sfruttando la scena-quasi affiche di Mauro Tinti – piccolo boccascena per il palcoscenico delle ballerine, gigantesca gamba di donna-praticabile incombente, velario argenteo appeso alla muraglia storica; la chiassosa sfilata sivigliana del quart’atto è ricreata come red-carpet assediato da paparazzi per l’ingresso dei divi a teatro – è piena di situazioni in cui, per onorare il luogo di partenza, la danza nelle coreografie di Jonny Autin spadroneggia. Tra accenni di can-can e spogliarelli, numeri di acrobati e di street-dance, travestitismi ambosessi e luci del varietà, colori lividi o triviali da luoghi del vizio metropolitano. L’opulenza visiva ha però inibito la cura dei gesti individuali, la drammaturgia scorre con apatia e prevedibilità dando moderata soddisfazione al pubblico dello Sferisterio che ha oramai pretese scenico-interpretative più forti.
Alla fine, comunque, non sono mancati applausi mescolati a qualche dissenso per i responsabili dello spettacolo. L’inaugurazione di “Rosso desiderio”, quinta e tinta tematica della 55esima stagione di Macerata Opera Festival può essere archiviata come un’occasione annunciata e delusa, ma un successo per la cronaca. E musicalmente non priva di momenti stimolanti seppure non continuativi. Soprattutto per merito di una lettura direttoriale che nonostante la resa dell’orchestra e l’improbabile pronuncia francese dei cantanti, ha fatto capire che idea sofisticata e “comica” in senso francese avesse la concertazione di Lanzillotta. Svelta, lieve e calibratissima nei couplets, sensibile nel modulare i caratteri variegati della partitura – restituita con significative aperture a numeri musicali solitamente espunti come la Pantomima del primo atto e il doppio duello del terzo (irrisolto però in scena: forse era meglio la versione musicale mutila), e qualche riduzione dei parlati non comprensibile – ma fin troppo ottimista nei confronti dell’acustica all’aperto. Intenzioni ricercate, poca risposta dalla compagnia vocale. A cominciare dalla protagonista Irene Roberts, più agile e a suo agio nelle coreografie che nel canto, e con una comunicativa non seduttiva né “selvaggia”, che con Valentina Mastrangelo (non abbastanza luminosa come altra dimensione femminile) ha comunque rappresentato il meglio della locandina che allinea Matthews Ryan Vicker e David Bizic come malinconici rappresentanti del sesso che in Carmen è debole.
Ma la irrisolutezza dell’impostazione narrativa avrebbe condizionato anche un cast migliore. Carmen è Carmen perché è diversa e contro tutti. La Spagna creata anzi “inventata da Bizet (diversamente da quella “etnografica” di Mérimée) non è solo colore: è paesaggio dell’anima, è quinta emotiva e ragione ambientale della guerra tra i sessi e contro la società regolare di Carmen. I suoi gesti estremi, come quelli di Don Josè, devono avere come fondale “una Spagna” non per acchiappare i turisti e chiedere l’applauso a ogni colpo d’anca ma per decollare. Sostituire il folklore andaluso con quello da Crazy Horse, il flamenco con la lap-dance, le mantillias col soubrettismo e le stelline sui capezzoli delle ballerine, ha senso – in Carmen e per Carmen simbolo-archetipo della libertà a tutti i costi – soltanto se la sua figura se ne distacca nettamente. Scompare nella sterile frenesia ordita in palcoscenico da Spirei dove tutti sono un po’ Carmen: il suo striptease ha l’effetto di un di più che non scandalizza e, soprattutto, non strega. In questo senso la rappresentazione accumula immagini ma pialla contrasti e passioni. Umilia una femminilità che deve spiazzare e incendiare. Sottrae il mistero e il profilo diabolico, e diabolicamente coerente con la propria diversità. La priva della sua logica di vita e, ancor più grave della “ragione” per essere uccisa. L’efficace soluzione teatrale del finale – Don Josè la massacra con la macchina fotografica strappata a uno dei reporter – risulta una terribile ma banale reazione da maschio. Un femminicidio di secondo grado, uno scatto d’ira che qualche tribunale becero potrebbe anche non punire come merita. Non l’esito fatale di una storia, anzi d’una tragedia greca impiantata non a caso nella profonda e barbarica Andalusia, che ha scritto il suo epilogo nello stesso svolgimento, che la divinazione atroce ma scontata delle carte ratifica senza possibilità di ritorno, e che la prorompente, unica, capacità e voglia di vivere diversamente di Carmen rende scultorea e immortale.
Angelo Foletto

 

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299 Aprile 2024
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