Pfitzner – Palestrina

Pfitzner - Palestrina

interpreti P. Bronder,  A. Yang, A. Muff 

direttore Ingo Metzmacher

regia Jens-Daniel Herzog

teatro Opernhaus

ZURIGO
 

ZURIGO – Nella sua monumentale Storia della musica, August Wilhelm Ambros dedica alcune pagine alla leggenda del salvataggio della musica polifonica da parte di Palestrina. La monodia fiorentina incombeva e seduceva. L’opera in musica era alle porte. I cardinali si rivolsero allora al loro princeps musicale, anziano e defilato a Santa Maria Maggiore, perché scrivesse l’ultimo capolavoro in grado di ridare vigore al genere da legittimare nella nuova liturgia tridentina. Su questo episodio Hans Pfitzner edifica un’opera imponente. E in qualche misura, se non autobiografica, quantomeno simbolica. Come non vedere infatti il rispecchiarsi di quell’ostilità di parte della cultura tedesca, e di Pfitzner in primis, nei confronti della “Neue Musik”? Solo che, col senno di poi, al 1917 (quando l’opera andò in scena a Monaco diretta da Bruno Walter), i conservatori si erano impantanati, mentre le avanguardie rompevano gli argini con vertiginosi capolavori. Poi definiti “degenerati” dai nazisti. 

Ecco dunque che la regia di Jens-Daniel Herzog, di rigoroso taglio “concettuale”, rovescia il punto di vista. E fa di Palestrina un compositore impotente del nostro tempo. A Novecento inoltrato o concluso (questo dicono gli arredi del suo triste salotto middle class) si ostina ancora a maneggiare senza costrutto vecchi arnesi, applaudito solo per piaggeria, o commiserazione, da preti e allievi. Mentre l’allievo prediletto lo tradisce col gruppo pop. 
Ma al di là del “Konzept”, lo spettacolo convince per le sottolineature crepuscolari che questa lettura permette di liberare, tutte presenti in una partitura (e in un libretto) colma di ripiegamenti. Da brivido la scena finale, quando Palestrina dovrebbe mettersi all’organo (qui un piano a coda) indifferente al trionfo che gli viene tributato: ora non riesce più a comporre, si alza puntandosi la pistola alla tempia ma non trova il coraggio di suicidarsi. Sull’ultima apparizione del toccante Leitmotiv, si accascia. Due volte incapace e sconfitto. 
Ciò che si vede sente il respiro segreto della musica e coglie i nodi, se non la lettera, della drammaturgia. Se il primo e terzo atto propongono una sintesi tra wagnerismo e arcaismo (gli antichi maestri che appaiono in sogno a Palestrina cantano in stile  polifonico neorinascimentale), il secondo atto è una brillantissima parafrasi dello Strauss di Till Eulenspiegel. Con quelli “esterni”, di fatto, non c’entra nulla. E poi quella benedetta messa Palestrina la scrive in preda al raptus alla fine del primo, si potrebbe andare dritti alla celebrazione finale. Ecco dunque l’idea di fare dell’atto del Concilio di Trento un divertente e scatenato divertissement chez Palestrina, il quale vi assiste incredulo. Così i conciliaboli si svolgono tra improbabili toilette cardinalizie e improvvisate spaghettate in cucina. D’altra parte se l’aulico Concilio finisce wagnerianamente in zuffa, anche il cardinale che se la fa nello sgabuzzino col novizio, ci può stare. Se non a Monaco, almeno nella protestante Zurigo. 
Magistrale la direzione di Ingo Metzmacher, il direttore perfetto per emancipare l’opera dalla fastidiosa retorica passatista che l’ha appesantita. Con lui il tessuto, a partire dai preludi sinfonici, si apprezza per l’affascinante eclettismo, diviso tra risonanze arcaiche, intrecci polifonici e trasparenti preziosismi orchestrali.  (…)
                                                                                                                               Andrea Estero 
 
La versione completa compare nel numero 153 di "Classic Voice" febbraio 2012
 


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