Verdi – Simon Boccanegra

LONDRA 

[interpreti] L. Gallo, A. Harteros, M. Haddock, F. Furlanetto, M. Vratogna
[direttore] John Eliot Gardiner
[regia] Ian Judge

Basta aver ascoltato i suoi epocali Troyens per sapere che John Eliot Gardiner non è solo un grande specialista barocco ma un grande direttore tout court. E questo Simon Boccanegra di Londra lo conferma. L’effetto sorpresa, però, resta: colpisce non il fatto che sia un bellissimo Simone, ma che bellissimo Simone sia. Pare che a Gardiner piaccia soprattutto il Verdi popolareggiante, quello delle ballate romantiche, dei cori che raccontano con il passo del feuilleton. Brani come “L’alta magion vedete?”, “Del mar sul lido”, “Orfanella il tetto umile” (ma sono solo i primi che vengono alla memoria) hanno il passo, il colore, anzi “la tinta” del grande romanzo d’appendice, com’è sempre più raro sentire man mano che il tempo ci allontana da quelle esperienze e da un “nazionalpopolare”, gramscianamente inteso, che è sempre meno nazionale e popolare, anzi forse non lo è più. Risentire questo Verdi, oggi, è raro; che lo si faccia a Londra, e oltretutto da un barocchista, poi… Detto questo, la Scena del Consiglio è perfettamente calibrata, attentissima nella distribuzione di pesi sonori e nelle alternative dinamiche, fino a concludersi con una maledizione davvero impressionante, uno schianto quasi fisico, ma di un fisico tutto nervi e niente adipe. Così, nonostante un coro e un’orchestra tutt’altro che memorabili, Gardiner dirige uno dei migliori Simoni ascoltati negli ultimi tempi. Anzi, anni.
Peccato che intorno ci sia il vuoto. Lo spettacolo risale al 1997 ed era stato allora concepito per la prima versione dell’opera, quella del 1857. Non è che dilatandosi alla seconda peggiori molto: scena fissa (bruttina), costumi ottocenteschi (idem), molto mestiere (si passa da un quadro all’altro senza soluzione di continuità, e anche con belle trovate, come Amelia-Maria che sorge improvvisa dal coro che ha appena concluso il Prologo) e pochissime idee. Certo, siamo a Londra e quindi, per esempio, l’irrompere del coro nel Palazzo ducale di Genova è folgorante. Ma per il Simone di un grande teatro è francamente un po’ poco.
In locandina sono successi diversi guai. Doveva essere – credo – il debutto nella parte di Nina Stemme, invece è stato quello in loco di Anja Harteros, accolta con peana dal pubblico, il che si può capire, e dalla critica, e qui capire è più difficile. In effetti, la presenza scenica è soggiogante, il timbro piacevole benché un po’ anonimo e i pianissimi al centro molto suggestivi. Ma qualche acuto stridulo e le difficoltà a modulare in alto fanno pensare che questa voce non sia poi così ben impostata. Alla “prima” (una matinée!) è sparito anche Orlin Anastassov, sostituito da Ferruccio Furlanetto che, con il suo vocione ancora solido e abbastanza morbido, alla fine è risultato il migliore in campo. Lucio Gallo è un artista raffinato, ottimo attore e fraseggiatore intelligente, ma non può evidentemente cantare Simone: la voce è fissa e dura, balla alla fine delle frasi più lunghe e acute e ogni tentativo di smorzare sfocia in raucedini varie. Quanto a Marcus Haddock, è il solito tenore dalla voce di plastica, né bella né brutta, ma per quel che riguarda l’espressività siamo al nomem omen. E l’“haddock” è un pesce. Surgelato, verrebbe da aggiungere.

Alberto Mattioli


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298 Marzo 2024
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