Bellini – I Capuleti e i Montecchi

interpreti J. DiDonato, O. Kulchynska, B. Bernheim, R. Lorenzi, A. Botnarciuc
direttore Fabio Luisi
orchestra Philharmonia Zurich
regia Christof Loy
regia video Michael Beyer
formato 16:9
sottotitoli  Ing., Fr., Ted., Cin.
dvd Accentus Music 20353
prezzo 29,90

bellini

Sono andate per fortuna infittendosi, attorno al giro del millennio, esecuzioni che a quest’opera hanno contribuito a togliere il consueto appellativo “minore” di cui tanto spesso l’ha gratificata quella musicologia interdetta da una sensibilità drammatica che, non essendo più quella classica e non ancora quella pienamente romantica, s’è preferito tacciarla sbrigativamente d’inconsistenza anziché provarsi a rintracciarvi proprio quella “terra di mezzo” che, nella sua ambigua compresenza di cose diverse, la rende non solo un unicum di per sé, ma ancor più per l’originalità con cui viene realizzata. Senza contare l’altra supposta grave colpa costituita dal suo programmatico non-Shakespeare: un tormentone, questo della maggiore o minore fedeltà dell’opera al modello d’un Bardo di cui Romani probabilmente conosceva nulla, e ancor meno gli importava. Figuriamoci quindi quanto dovrebbe importare a noi, sol che ci scrollassimo di  dosso la funesta mania di ragionare sempre per Principi Letterari Superiori cui chissà perché dovrebbe attenersi anche il teatro musicale che, per sua intima natura, ha tecniche, quindi linguaggi, quindi contenuti, del tutto autonomi. Stupendamente immersa, quest’opera, in un’atmosfera morbida, incantata, dove ogni forma definita pare liquefarsi in colori tenuissimi che, lungi dall’escludere una concretezza drammaturgica, ne definisce quella più autenticamente belliniana: antipsicologica, antinaturalista, antiformale, dove un magico “sentire” raffredda il rovente respiro romantico in un iperuranio cristallizzato. Tutte cose che rendono oltremodo scabroso il compito del direttore. Luisi è straordinario.
Lo strumentale così ingannevolmente semplice è reso con una limpidezza che, sotto l’onnipresente velo cinerino di cui melodiosamente s’avvolge l’elementare eppure infallibile procedere armonico, ne scopre e ne evidenzia quei sottili eppure robustissimi costoloni cinetici (l’aria di sortita di Romeo, prima, e la cabaletta poi! Ma anche il duetto Romeo-Tebaldo). Nessuna pesantezza offusca l’elasticità ritmica con cui Bellini costruisce il proprio personalissimo respiro teatrale, così come l’accompagnamento al canto ne coglie ovunque il tanto particolare suo carattere, con un senso del rubato capace di infondere significato anche alla figura più elementare, sia essa un’unica nota tenuta dei fiati o un semplice pizzicato degli archi. Accompagnamento, soprattutto, che se offre sempre una rete di protezione alle occasionali debolezze vocali, ne esalta quanto più possibile i pregi. Che sono tanti.
Innanzitutto la grande sorpresa di questa venticinquenne Olga Kulchynska: bella e soprattutto assai personale voce, sostenuta da tecnica già scaltrita (questa registrazione precede il concorso Operalia dove ha vinto il primo premio) che le consente un lavoro sulla dinamica capace d’imprimere al fraseggio accenti e colori sempre intriganti e sempre in linea col difficilissimo imposto scenico, cui presta anche la figura e una capacità scenica evidentemente innata data l’età. Joyce DiDonato, inutile negarlo, di problemi vocali ne ha adesso parecchi, specie nel registro superiore per raggiungere il quale deve superare un principio avanzato di “buco” al centro, ovvio portato di scelte azzardose di repertorio. Qui appunto soccorre l’accompagnamento, e ancor più soccorre la statura di un’artista di classe superiore. Non c’è frase, parola, fonema che non sia significante e personale: un gioco d’accenti capace d’imprimersi nella memoria molto più di qualche suono tirato o “indietro”. Notevole il Tebaldo luminoso e squillante di Benjamin Bernheim,  dignitosi il Lorenzo di Robert Lorenzi e (ma un po’ meno) il Capellio di Alexei Botnarciuc.
Lo spettacolo di Loy è ambientato in un’atmosfera alla Padrino che irrobustisce e infosca forse un filo troppo la tela belliniana, ma funziona magnificamente sul piano narrativo. Effettivamente, il libretto non dice a chiare lettere – come fa invece Shakespeare – la fine di Giulietta: “cade sul corpo di Romeo” può anche significare uno svenimento. E allora, la scena rotante ci presenta una sorta di flash-back: una Giulietta vecchia, sola in una stanza piena di cadaveri, con gli occhi sbarrati nel vuoto si alterna nello spicchio seguente del girevole a una bambina che il padre opprime e forse addirittura molesta in bagno (e lei prende il tic di tirarsi una ciocca di capelli, poi mantenuta), per poi presentarla a un Tebaldo coetaneo al quale la destina per ovvie ragioni di convenienza di clan. Il girevole permette la transizione l’una nell’altra delle diverse tappe narrative, dove la violenza è allusa e presentata già avvenuta nei profluvi di cadaveri sanguinanti stesi al suolo, che punteggiano la vicenda d’amore di cui molto sottolineata (e spiegata proprio dalla violenza paterna) è l’obiettivamente strana ritrosia di Giulietta a lasciare la casa paterna in nome di un “onore” evidentemente inculcatole e causa d’un grumo psicotico ai confini con la schizofrenia. Niente figure angeliche e sognanti in languorosa mestizia: tragiche, invece, immerse in un mondo violento e ostile. A me pare che funzioni straordinariamente bene: comunque, di certo uno spettacolo che non si dimentica.
Elvio Giudici

 

 

 

 

 

 

 


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298 Marzo 2024
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