Halévy – Clari

Halevy - Clari

interpreti C. Bartoli, J. Osborn, E. Liebau, O. Widmer, G. Scorsin, C. Chausson, S. Kaluza
 direttore Adam Fischer
 orchestra La Scintilla dell’Opera di Zurigo
 regia Moshe Leiser & Patrice Caurier
 regia video Felix Breisach
 formato 16:9
 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted., Sp.
 2 dvd Decca 0743382

Certo che di musiche brutte ne ho sentite tante: ma così orrenda, era parecchio che non mi capitava. Sommata per giunta a una di quelle regolari schifezze drammaturgiche che il primo quarto dell’Ottocento rubricava nella casella opera semiseria: regolare tomba per qualunque compositore vi si sia cimentato, con la parziale eccezione della Gazza ladra, ma perché di Rossini ce n’è solo uno. Questa Clari d’un Halévy ventinovenne, alle prese con un libretto che definire brutto sarebbe già una qualifica mentre la sua scemenza non ne merita nessuna, mescola di tutto un po’ condendolo in salsa rossiniana concentrata, ma il risultato finale, data anche la stretta analogia della trama, a un eventuale confronto con la donizettiana Linda farebbe parere bella quest’ultima, il che è tutto dire. Si comincia (parodiando che peggio non si potrebbe il Maestro di cappella cimarosiano, nella persona d’un servitore che s’improvvisa musicista) a casa del seduttore, dove la sedotta – e ancora nubile – contadina Clari viene festeggiata dagli amici di lui con una pantomima che nel ripercorrerne la vicenda (fuga da casa con genitori disperati) la fa andare in crisi con momentanea pazzia; rinsavimento e fuga dal seduttore in seno alla famiglia, dove il padre la respinge ma la madre no; poi rinsavisce anche lui, che arriva ad assicurare nozze riparatrici; giubilo generale e rondò.
Se il cuore ha ragioni che la ragione non comprende, figuriamoci se si possono capire le ragioni delle dive. Dunque, Cecilia Bartoli in piena fase-Malibran decide di riesumare questo che pare fosse un suo cavallo di battaglia: chiamata, Zurigo risponde mettendola in scena, e la Decca ovviamente assicura una ripresa video. C’è da dire che lei onora la richiesta con una prova maiuscola. Lungo dei legati chilometrici e compattissimi, la gamma di colori, chiaroscuri, inflessioni trovate all’interno della sua dizione di proverbiale scolpitura, è non meno che favolosa. La coloratura, sgranata ch’è una meraviglia: sia quella rapida sia l’infilata di certi mordenti e gruppetti di liquida esattezza all’interno d’una quadratura ritmica di musicalità strumentale. Vocalità fenomenale, insomma, che fa blocco con una recitazione da grandissima: così grande da non arretrare davanti a certi costumi quali il camicione indossato nella scena della clinica, che la mostrizzano non di poco. Recitazione che, oggi decisiva sempre ove si voglia davvero far teatro anziché concerto in costume, diventa di particolare importanza all’interno d’un taglio scenico come questo. Forse l’unico possibile, quantunque tirato così all’estremo da diventare presto abbastanza stucchevole. Del tutto improponibili essendo difatti vicenda, ambientazione e conclusione, buona l’idea di partenza di non nasconderle ma al contrario accentuarle fino all’inverosimile dando loro tratti marcatissimi, neppure da soap-opera ma proprio da antico fotoromanzo anni Cinquanta, alla Grand-Hotel, con l’aiuto della moderna tecnologia digitale per sciorinare effetti di sicuro impatto.
L’introduzione all’aria di sortita “Come dolce a me favelli”, ad esempio, è l’occasione per mostrare un flashback della vicenda sotto forma di diapositive fatte scorrere in un quadro che da veduta alpina diventa televisore: Clari contadina che munge le vacche, che sogna attraverso dubbie letture, che va in bici a un Internet point mettendo la propria foto in rete, che il Duca playboy – vestito d’oro e pellicce – vede, s’innamora, manda a sua volta foto e biglietto aereo, la contadina se ne va con valigia di cartone salutata da padre maledicente, è accolta dal drudo all’aeroporto con gran mazzo di rose rosse e piazzata nell’appartamento in stile postmoderno dove appunto lei ci compare in tailleurino verde acqua con perline sberluccicanti e tubino in testa. Il risultato è efficace e fa quasi scordare la scolastica piattezza d’uno strumentale che affonda poi del tutto allorché principia la linea vocale: dove la maestria della Bartoli non basta a distrarre dalla gnagnera della scrittura, per farlo occorrerebbe una visita a Lourdes. Quando Clari è fuori di testa, canta il Salice dal rossiniano Otello. Nonostante un’esecuzione a dir poco sbalorditiva (tutta una mezzavoce tirata allo spasimo, d’inquietante, davvero malata dolcezza), è sempre una pessima idea passare dalle stalle alle stelle, con relativo ritorno allorché s’introduce un’altra aria estranea quale conclusivo rondò, quella di Miranda dalla Tempesta dello stesso Halévy, che invece non stona: perché è brutta quanto e forse più di tutto il resto, quantunque la Bartoli la canti strabenissimo come tutto il resto. Bravucci ma niente di che i ruoli di fianco, discreto Osborn che risolve con gran spolvero d’acuti – ma anche con qualche sbandamento e con più d’un gradino nella linea – un’aria abbastanza difficile.


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299 Aprile 2024
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